Riccardo Caldura, Alfabeto Esteso, note sulla ricerca di Bianco-Valente, 2008

In una pubblicazione di alcuni anni orsono ( Espresso. Arte oggi in Italia, Electa 2000) compariva una immagine ( Deep in my mind ) in cui il volto chiaro di Giovanna Bianco, leggermente sfocato, colto di profilo e ad occhi chiusi, era stato ripreso durante un encefalogramma. Con elettrodi, sensori, cavi e le cinghie per tenere il dispositivo in posizione corretta sulla calotta cranica.
Era ed è un'immagine assai significativa per comprendere l'avvio di un percorso artistico di grande originalità perché si situa lungo il confine fra percezione e realtà, ricorre a dispositivi tecnologici e ad elaborazioni elettroniche per restituire in immagini il processo di decodificazione degli impulsi bioelettrici che costituiscono il network infrasottile, la rete psicosensoriale e neuronale, del nostro relazionarci con le cose ‘esterne'.

Quel che preme al duo di artisti napoletani, Giovanna Bianco e Pino Valente, insieme nell'arte e nella vita, è sondare quell'ambito in cui il contatto fra la realtà, il corpo e la mente rivela una condizione originaria, fatta di indistinzione e brusii, di sfocature e subitanee messe a fuoco, come se i messaggi che arrivano dall'esterno fossero colti nel loro momento di passaggio attraverso la rete di decodificazione audiovisiva che ne permetterà l'eventuale comprensione.
Le stampe lambda, spesso di grandi dimensioni, le videoproiezioni e le videoinstallazioni ambientali, sono la restituzione visiva di quel che i due artisti indagano e registrano nella sfera del contatto fra esterno e interno, le velocissime connessioni che la attraversano, l'attività delle sinapsi non ancora tradotte in una rappresentazione distinta. Il loro lavoro parte dunque dall'indagine del magma sensoriale: di fatto producendo immagini di soglia che non è possibile definire solo oniriche - semmai costituiscono la vibrazione profonda della fase REM: titolo di un lavoro del 1995-2002 - e che non potremmo certo confondere con la pura e semplice percezione del reale.

Un'indagine sulla sensorialità che per un verso è attenta agli aspetti di analisi e restituzione scientifica, e per altro verso non ha esitato a confrontarsi con quegli stati alterati della mente, indotti dall'assunzione di droghe e stupefacenti. Non pochi dei loro lavori, in particolare video, sembrano avere l'andamento di un sogno psichedelico, con colori fortemente alterati, particolari movimenti della videocamera tenuta quasi raso terra (“Cloud System”, 2004), come se esistesse solo un rapporto fra il vicinissimo (steli d'erba, spighe) e il cielo lontano a far da sfondo (“Uneuclidean pattern”, 2003). Immagini che mettono in scena una dimensione da paesaggio primordiale, dove ogni minima cosa è apparizione, ombra che trascolora, nube dagli orli di luce.
Come in “I should learn from you” (2003) dove si scorge una persona tenere il filo di un aquilone, altissimo, risolto in un bagliore luminoso che oscilla di contro ad un cielo rosa-arancio. Nel 2003, con sound design elaborato da Mass, Bianco-Valente compongono le varie sequenze del loro lavoro video di più ampio respiro “Self Organizing Structures”, della durata di circa 35 minuti dove compaiono gli elementi e gli aspetti ricorrenti della loro poetica: alterazioni psicopercettive durante un viaggio in auto o una camminata; il paesaggio primordiale, in particolare con immagini di distese marine di grande suggestione; composizioni astratte autogenerate da programmi elettronici che assimilano la generazione dell'immagine artificiale a quella della crescita di microorganismi; l'insistenza sullo sguardo, con riprese lentissime su un viso dagli occhi spalancati, colti in una fase di così assorta attenzione da diminuire sensibilmente il battito delle ciglia. Sguardo fisso, ai limiti dell'allucinazione.

D'altronde “Altered State” è un lavoro assai indicativo del 2001 dove vengono riprese, in rapidissime sequenze video, frasi dei diari di Alfred Hoffmann, scopritore dell' LSD, e interlocutore privilegiato di Ernst Jünger. Così come alle esperienze indotte da droghe si rifanno anche il video e le singole immagini di “Slow Brain” (2001).
Osservando i lavori del duo napoletano, in particolare proprio quelli compresi fra il 1997 e il 2004, è come se ci si trovasse a riconsiderare, in una sorta di effetto eco, le atmosfere psichedeliche che hanno caratterizzato gli anni '60. Bianco-Valente sembrano ripercorrere quelle atmosfere, ormai spogliate però da ogni idea di palingenesi sociale e dalle indicazioni ideologicamente alternative sulla vita da condurre, ‘raffreddate' e considerate per la pura potenzialità visiva che contenevano.
Vi è un'altra loro opera, (“Machine is dreaming”, sempre del 2001), che indica bene il punto di distacco, preciso, e appena velato di ironia rispetto alla considerazione della macchina per eccellenza, il computer, che aveva rappresentato, per la generazione americana degli anni '60, la possibile svolta tecnologica verso una vita altra, parallela a quella ordinaria, e dai più ampi orizzonti.

La macchina sognante di Bianco-Valente altro non è se non il resto di un computer anatomizzato, utopia ridotta alla sua componentistica elementare, appoggiata a terra, e con la sola scheda madre sollevata di un po' dal pavimento grazie a dei piedini costituiti da pastiglie di sostanze ‘psicoattive'. La macchina posta in uno stato di ‘sospensione fisica', come precisavano Bianco-Valente, generava, sulla base di un calcolo piuttosto elaborato, un brusio con infinite variazioni, il cui risultato sonoro somigliava “al rumore del mare”.
La smitizzazione dall'ideologia libertaria degli stati di alterazione prodotti da sostanze allucinogene, comporta anche la smitizzazione dell'aspetto sempre più hi-tech, immateriale e virtuale, della immagine elaborata digitalmente dalla macchina. Favorendo così, per contrasto, una pura concentrazione sulle potenzialità dell'immagine di per sé stessa, indipendentemente dal grado di tecnologia richiesta per la sua elaborazione, e considerandola invece efficacissimo strumento di rilevamento lungo il confine mobile fra realtà e visione, fra artificiale e naturale.

Una giusta distanza dal pathos delle esperienze psichedeliche e cibernetiche, permette così al sodalizio napoletano una grande varietà e libertà di soluzioni: immagini molto elaborate convivono con soluzioni a bassissimo impatto tecnologico, si pensi a “Unità minima di senso” (2002), opera/installazione costituita da un sottile nastro di carta di 1 chilometro, scritto e disegnato a due mani, che costituisce la registrazione di uno stream of consciousness protrattosi per alcuni mesi. Oppure alla recentissima installazione “The effort to recompose my complexity” realizzata utilizzando disegni di tessuti neuronali elaborati al computer ( su carta e riprodotti in bianco e nero), incollati a parete, parete sulla quale poi Bianco e Valente hanno lavorato tracciando un vero e proprio wall drawing , congiungendo con linee a grafite i vari elementi.

Rete su rete; l'azione della mano che congiunge i frammenti di un tessuto connettivo riprodotto digitalmente. “The effort to recompose my complexity” rappresenta bene, come già la video installazione “Relational Domain” del 2005, ciò che agli artisti napoletani preme oggi porre in evidenza e far affiorare: quel piano relazionale profondo che tiene insieme la forma dei dendriti con quella della crescita arborea (“Adaptive”, 2007); il tessuto delle connessioni neuronali di “The effort to recompose my complexity”con la rete costituita dalle rotte aeronautiche di “Relational Domain”, i cui snodi assumono nomi dalla profonda poeticità, proprio perché non poeticamente voluti, ma così definiti dalla pratica dei controllori di volo.
In questo senso si può effettivamente notare una variazione, o un'evoluzione, in atto nella ricerca del duo napoletano. L'indagine sugli stati psicosensoriali aveva prodotto fra il 1997 e il 2004 una notevole serie di lavori, sia video che opere singole, di grande fascinazione dovuta anche alla intensa ricerca di soluzioni cromatiche molto originali, ai limiti dell'astrazione, che conducevano quasi “per mano”, come è stato scritto su Neural, “nelle derive di un'altra memoria ”.

Opere ai limiti del sogno o della visione. Però i lavori degli anni successivi, come il già citato “Relational domain” (2005), la serie di trittici di Reactive (2007), dove compare l'immagine del globo terrestre la cui superficie è tramata da un fitto reticolo connettivo, e l'ultima installazione a cui si è fatto riferimento (“The effort to recompose my complexity”) stanno ad indicare uno spostamento della loro ricerca verso l'idea della rete, della mappa, del viaggio. Entrare in una stanza/cervello, percorrere con lo sguardo il lieve movimento ipnotico del succedersi di rotte aeree, mettersi idealmente in cammino sulla superficie del globo per rilevarne i punti di saturazione sensoriale, quasi il globo terrestre stesso avesse delle aree encefalo grafiche che rivelano un'attività inconsueta.

Queste opere evidenziano tutte l'intensificarsi della ricerca intorno alla restituzione in immagine dell'idea di rete, snodo, addensamento (pulviscolare, micro organico, ‘neuronale'), elementi che costituiscono quel vastissimo tessuto connettivo che si estende omnidimensionalmente dentro e intorno a noi. Il compito che sembrano essersi dati Bianco-Valente è quello di far affiorare questo tessuto di connessioni impercettibili, registrarne il codice generativo e l'intimo funzionamento.
Dunque: dall'unità minima di senso alla ricostruzione di un alfabeto esteso, che costituisce lo strato ìnfrasottile, la condizione ‘staminale' ed equipotente, il piano relazionale profondo, ove i fenomeni fisici non sono disgiunti da quelli psichici. La volta del cielo, percorsa dalla complessa trama dei voli civili e militari, prima che dalle odierne mappe aereonautiche è stata per lungo tempo segnata da mappe psico-astrali.
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Tratto da Alfabeto Esteso, Bianco-Valente, Dario De bastiani Editore, Vittorio Veneto (TV), 2008

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