Raimondo Fassa - Gli "Orizzonti Trasparenti" di Bianco-Valente, 2008

Muovendosi frenetici fra la nativa Napoli ed i quattro “altri” angoli del mondo, Giovanna Bianco e Pino Valente (lui geologo mancato, lei laureata in lingue e cinematografia) è ormai da tredici anni che camminano assieme nel mondo sia della vita (sono marito e moglie) sia dell'arte.

Me li ha poi fatti incontrare una sera Vittoria Broggini, la nostra responsabile mostre, in un ristorante qui di Gallarate, e ne sono rimasto conquistato. Non solo per la loro calda umanità (non retoricamente “partenopea”), ma anche per gli stimoli intellettuali che due chiacchieroni del loro calibro riescono a dare.

Ci hanno raccontato, ad esempio, di una loro spettacolare scelta di vita prima ancora che di arte. N el 2001 hanno iniziato un progetto, legato ai viaggi e alle influenze astrali, con l'intento di verificare su di sé la fondatezza di un'antichissima teoria astrologico-astronomica, la quale presuppone l'esistenza di cicli a cui ogni essere vivente è imprescindibilmente legato e la possibilità, spostandosi sulla terra al rinnovarsi di ogni ciclo, di influenzare gli avvenimenti futuri. Sicché, ogni anno, capita loro di compiere dei viaggi “estremi” fra deserti inaccessibili e sfolgoranti aurore boreali!

Ma sbaglierebbe chi li considerasse due stravaganti (magari in ossequio ad un cliché tardoromantico che vorrebbe tali tutti gli artisti…). In realtà, di rado capita di trovarsi di fronte ad una produzione artistica di più solare - e algida insieme - razionalità.

Chi interverrà dopo di me in questo catalogo ne analizzerà più in dettaglio gli aspetti.

Io mi limiterò a indicare alcuni idola (nel senso baconiano del termine) che questa mostra di Bianco-Valente demolisce alla radice, e che ne giustifica l'inserimento nell'edizione di quest'anno di Filosofarti.

Il primo è la contrapposizione fra arte, da un lato, e scienza e tecnologia dall'altro. Non soltanto perché queste opere d'arte sfruttano, in modo controllatissimo, gli strumenti tecnici più raffinati, ma anche (e soprattutto) poiché attribuiscono all'arte una funzione prettamente conoscitiva. Esse sembrano respingere sia l'idea romantico-decadente dell'arte come luogo dell'irrazionalità sia la concezione “contemporanea” di un'arte che produce sapere solo per accidens 1 . E sembrano richiamarsi, invece, alla riflessione di Alain Badiou 2, per il quale l'arte è una “procedura di verità” - idonea cioè a pensarla nel suo fenomenico farsi - sicché il fatto artistico può essere considerato come un evento - singolare e immanente - dotato di un suo peculiare “pensiero”.

Il secondo idolo infranto è l'idea - risalente a Cartesio ma di continuo ricorrente - di una contrapposizione fra la mente ed il corpo, fra lo psichico e il fisico. E non nel senso di un'improbabile “sintesi”. La sintesi, infatti, è una sorta di “terzo” che supera due elementi antitetici. La centralità che per Bianco-Valente assume il dato sensoriale (non solo visivo, ma anche, e contemporaneamente, sonoro) si muove, invece, à rebours e ci riconduce, tramite l'opera d'arte, a quel momento germinativo originario dell'esperienza che si colloca prima che l'antitesi stessa si produca.

Il terzo idolo polemico di Bianco-Valente – la cui opera è stata significativamente indicata come sintomo di un'emergente “terza cultura” – è la contrapposizione fra l'uomo e la macchina (che appunto ha come corollario quella fra le cosiddette “due culture”, tecnico-scientifica e umanistica), di cui ci viene fatto sentire il carattere spurio.

In realtà le macchine – specie quelle contemporanee, sempre più sofisticate e quindi sempre più simili a noi – sono “esperienze-conoscenze umane condensate”. E proprio tramite loro possiamo illuminare aspetti della nostra esistenza che altrimenti ci resterebbero oscuri. Non c'è antitesi, insomma, fra natura e cultura, fra tecnica e vita. L'uomo è un animale - sembra dirci l'opera di Bianco-Valente (non a caso così attenta alle conquiste della neurobiologia e dell'intelligenza artificiale) - “naturalmente culturale”, originariamente portato a una téchne non contrapposta alla sua esperienza di vita, ma da questa nascente, e pertanto capace di produrre una sorta di “seconda natura”. Per questo la mostra qui introdotta idealmente si ricollega a quella dello scorso anno, dedicata al catalano Marcel.lí Antúnez Roca, ed in un certo senso la completa.

Perciò non mi sono del tutto sbagliato quando, sentendo parlare per la prima volta di ‘Bianco-Valente', avevo pensato (arrossisco a dirlo!) che si trattasse di un unico artista (di nome “Bianco” e “Valente” di cognome!).

Perché questi due indiavolati napoletani cosmopoliti hanno in effetti saputo – proprio attraverso un'esperienza artistica e di vita profondamente unitaria non solo nelle azioni, ma anche nei contenuti e nelle forme – fornirci un grande ammonimento etico. Esortarci, cioè, a uscire dalla nostra “separatezza” per abbattere le barriere che quotidianamente poniamo fra noi e la vita.

La quale, invece, è lì, davanti a noi, sol che s'abbia il coraggio di viverla, come in questa mostra, nelle infinite “trasparenze” dei suoi aurorali “orizzonti”.

Note
1) Com'è ad esempio sostenuto in M. Ferraris, La fidanzata automatica , Milano 2007 (su cui mi permetto di rinviare a R. Fassa, Per l'Arte contro i suoi meccanismi , ne “Il Domenicale”, 12 gennaio 2008, p. 10).
2) A. Badiou, Inestetica , Milano 2008.
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Tratto da visibile invisibile, Bianco-Valente Opere video e ambienti 1995-2008, ed. SHINfactory, Brescia_Parigi, 2008

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