Lelio Aiello, Intervista a Bianco-Valente, 2008

Incontro Bianco-Valente nella loro casa/studio a Napoli, in un momento particolare del loro percorso artistico: una mostra in corso alla Galleria Contemporaneo di Mestre, a ridosso della loro prima retrospettiva alla GAM di Gallarate e della personale alla galleria Alfonso Artiaco di Napoli.
Ci salutiamo tra l’alternarsi degli squilli del telefono fisso e mobile che non lasciano tregua... solo a sera riusciamo a fare l’intervista.

Lelio Aiello: A differenza di molti vostri colleghi che hanno preferito trasferirsi in altre città italiane e europee voi avete deciso di vivere e lavorare a Napoli.

Giovanna Bianco: Quando abbiamo iniziato, a Napoli, non c’erano tutte le gallerie che ci sono ora e tutta l’attenzione per l’arte contemporanea che c’è adesso, per questo motivo molti artisti napoletani si trasferirono a Milano. Ora ci sono dei musei, molte gallerie private e c’è anche molto collezionismo.

Pino Valente: Sul contemporaneo c’era pochissimo, non si investiva o si investiva sulle cose già storicizzate. La tentazione c’è stata, pensavamo che in città come Milano o Bologna sarebbe stato più facile lavorare e avere visibilità. Abbiamo valutato per qualche mese questa possibilità, poi abbiamo deciso di rimanere qui, ci piace la tensione che anima Napoli e la sua energia.


L.A. Quindi il carattere di una città influisce sul lavoro?

V
. Certo influisce. Soprattutto a Napoli dove convivono, in ogni angolo della strada il bene e il male più estremo, si intrecciano sempre, continuamente. è una cosa incredibile. E poi non c’è nulla che rimane fermo.

B. Si evolve tutto continuamente. Comunque è stata una scelta molto determinata, perché sapevamo che avremmo dovuto fare degli sforzi in più per portare avanti il nostro lavoro, ora siamo contenti di non avere abbandonato questa città. Io non sono di Napoli ma ci vivo da tanti anni, e trovo che sia sempre un po’ una sconfitta essere costretti ad andarsene dalla città che ti ha formato.


L.A. Siete insieme, se non ricordo male, dal 1994. Circa un anno dopo avete scoperto la vostra vera passione: l’arte. Una fatalità, una coincidenza astrale imprevedibile. Il progetto RSM, che portate avanti a 6 anni circa, è un tentativo di intervenire, secondo una antichissima teoria astronomica/astrologica, sulla modificazione del destino. Me ne parlate.

V
. Non credo che ci sia un destino o che questi famosi influssi astrali decidano esattamente ciò che avverrà. Parlerei più di tendenze, di avvenimenti che possono andare in questa o quell’altra direzione. Il progetto si basa su una teoria di cui le prime tracce scritte sono di epoca medievale e già in questi libri se ne parla come se fosse una cosa molto antica, risale alla notte dei tempi.

B. Forse addirittura all’epoca babilonese.


L.A. Il progetto RSM mi sembra che abbia assunto la forma di una performance lontana dal pubblico, quindi intima. Rimarrà un bacino dove attingere per il proprio lavoro o si concretizzerà in un’opera?

V. Se vuoi vi è una doppia valenza: da una parte sperimentiamo su noi stessi questa teoria che sembra pazzesca, e che è stata analizzata da uno studioso napoletano, Ciro Disceplo, dall’altra, altrettanto importante, c’è l’esperienza del viaggio, in posti lontani e in situazioni completamente diverse dal nostro vivere quotidiano.

B. Non volevamo fare un lavoro legato al sociale, mostrare i luoghi o come vivono queste persone, ci interessava di più entrare in relazione con essi. Molti lavori come “Tempo universale”, “Relational domain” e anche il nuovo lavoro “The effort to recompose my complexity” sono frutto di queste esperienze. Ci chiediamo sempre se esiste veramente un nesso tra la posizione dei pianeti e quello che avviene sulla terra. Hanno questa influenza? E se ce l’hanno significa che tutto ciò che avviene è correlato, che ci sono fili invisibili che legano l’uno all’altro le cose. Ecco perché negli ultimi lavori é costante il tema della trama, delle connessioni, delle relazioni e delle ramificazioni che sono un po’ le scelte, i destini e i bivi della nostra esistenza.


L.A. Pino avresti fatto il geologo dice la memoria storica e tu la storica del cinema.

B
. No, l’insegnante di lingue. Avremo fatto altre cose se non ci fossimo conosciuti.

V. La vita è fatta di scelte, di bivi.


L.A. Alla Galleria Contemporaneo di Mestre avete presentato l’installazione “Relational Domain”, che amo molto, e “The effort to recompose my complexity”, un nuovo lavoro creato per lo spazio, anche questo relazionale, ma realizzato con materiali concreti come la carta e la grafite. Da una parte l’immaterialità del video, dall’altra questa esigenza di immergere le mani nella materia.

B
. Sì, è una cosa che ci ha sempre affascinato utilizzare le mani per poter creare delle opere. Purtroppo non sappiamo nè dipingere né disegnare bene, l’unico lavoro in cui le abbiamo utilizzate è stato “Unità minima di senso”: un nastro di carta lungo un chilometro dove abbiamo scritto a penna, per diversi mesi, le nostre esperienze più intime, un lavoro determinante per noi.

V. Che ha cambiato per sempre la nostra grafia. Ora non riesco più a firmare o a scrivere come prima, ho perso per sempre la mia calligrafia a furia di scrivere.

B. è un lavoro aperto che ogni tanto continuiamo.


L.A. “The effort to recompose my complexity”, disegni digitali di ramificazioni arboree e ramificazioni di strutture nervose o venose, incollate direttamente sulle pareti dello spazio e collegate da intrecci di linee.

B. E’ un lavoro che si riferisce allo sforzo fisico e al tentativo che abbiamo fatto per ricomporre la complessità del nostro essere. Quando abbiamo iniziato a installarlo c’è stata un po’ di tensione, una sorta di timore nel mettere le mani sulla parete, poi abbiamo cominciato ed è stato molto bello. E’ la seconda volta che utilizziamo il nostro corpo per la realizzazione di un’opera, una cosa molto bella per me.

V. L’essenza, ne parlavamo prima, è di mettere in relazione le cose, ci interessa ricostruire una cartina, una mappa di come sei fatto dentro. Si riferisce all’entità Bianco-Valente come se si trattasse di un’unica cosa. La complessità aumenta perché in realtà siamo due persone, anche se dal punto di vista artistico siamo un’unica cosa. Il senso è di cercare di ricostruire, anche se solo a sprazzi, la complessità di cui siamo fatti.

B. Anche questo è un lavoro in progress, abbiamo già in mente una sua evoluzione. Ad esempio alla GAM di Gallarate ci sarà un video che apparirà continuamente frammentato, sempre nel tentativo di ricostruire un’unità, un‘ossatura complessa, dove non ci sarà mai la possibilità di vedere un’immagine del tutto perfetta, definita e chiara. C’é sempre questa spezzettatura del paesaggio interiore e fisico.


L.A. Alla GAM di Gallarate la vostra prima mostra retrospettiva, un momento importante per ogni artista. Con quale criterio avete scelto le opere?

B
. Abbiamo dato prevalenza alle opere video e video-installative, prodotte a partire dal ‘95 fino al 2008 con l’aggiunta di un altro step, un altro passo oltre al video e mi riferisco appunto a “The effort to recompose my complexity”. Forse ci sarà un video allestito all’esterno del Museo.

V. Avremmo voluto fare una mostra molto più estesa. Un’opera a parete occupa uno spazio fisico, mentre un video tende ad invadere tutto l’ambiente, soprattutto se c’è il suono, quindi è necessario avere spazi molto grandi e attrezzature abbastanza costose. Il problema, in questo caso, è stato lo spazio più che il budget e abbiamo dovuto limitarci a circa 10-11 installazioni video, che non è poco. La mostra sarà accompagnata da un catalogo con testi di qualità, ricchi di spunti e nuove riflessioni sul nostro lavoro.


L.A. Ogni opera che un artista realizza é il risultato di una non-risposta da cui nasce la necessità di farne un’altra, una retrospettiva può invece dare delle risposte.

B
. Un po’ è vero. Una retrospettiva è la misurazione di un percorso di evoluzione del proprio lavoro, ma anche delle costanti mantenute nel tempo. Questo è emerso mentre stavamo riguardando tutta la mole di lavoro che abbiamo prodotto nel tempo, uno sguardo interessante.

B. Un po’ sì, è come guardarsi allo specchio…forse.


L.A. Ci sono state richieste particolari da parte dei curatori della mostra?

V
. No, è stato interessante relazionare il nostro punto di vista, per la scelta delle opere e della struttura del catalogo, con il loro sicuramente più distaccato. comunque sarà bello vedere i risultati di questo scambio quando la mostra sarà montata.


L.A. Il vostro lavoro cerca di rendere visibile l’invisibile, immagini mentali.

V
. Infatti la mostra si chiama Visibile-Invisibile.

B. Lo sapevi il titolo?


L.A. No, lo scopro ora. Il video e l’istallazione video sono entrate solo da qualche anno a far parte delle collezioni museali e private. Voi lavorate prevalentemente con questo linguaggio...

V
. All’inizio del nostro lavoro nelle mostre mettevamo dei quadri, delle fotografie… oggi non pensiamo più alla vendibilità dell’opera, non ci interessa questo aspetto. Tendiamo a coinvolgere con l’istallazione video e con il suono l’intero spazio installativo.

B. Inoltre la relazione tra l’opera e l’ambiente, lo spazio architettonico e un discorso che abbiamo sempre affrontato, fin dall’inizio, ci interessa particolarmente e da sempre.


L.A. Il vostro lavoro fondamentale è quello installativo poi ci sono opere che in qualche modo vanno fatte...

B
. Noi siamo molto parsimoniosi nella realizzazione di lavori ‘vendibili’ e che si portano essenzialmente alle fiere, per noi è una specie di interruzione del lavoro portante, una pausa, un fermo immagine…

V. è un’instantanea, o meglio varie istantanee.


L.A. L’Arte Povera ha avuto un forte riscontro internazionale, forse unico per il panorama artistico italiano, che ha lasciato tracce sulla vostra generazione e su quelle più recenti, mentre le vostre radici le riconduco agli esperimenti del cinema espanso, alla psichedelie e per certi versi ad alcuni film di Wim Wenders.

V
. Forse questo è dovuto al fatto di non aver frequentato né l’Istituto d’Arte né l’Accademia, tra virgolette essere un po’ ignoranti forse ti permette di essere anche più libero e il fatto di aver cominciato tardi ci ha permesso di essere più consapevoli dulle cose che facevamo... forse è questo.


L.A. Può essere. La vostra prossima meta di viaggio?

V
. Dobbiamo ancora scoprirlo, ad aprile è il mio compleanno, il tempo di calcolare... Rangoon o una città del Nord Europa.

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Tratto da Alfabeto Esteso, Bianco-Valente, Dario De bastiani Editore, Vittorio Veneto (TV), 2008

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