Terra di me, Daria Filardo e Costanza Meli in conversazione con Bianco-Valente, 2018

Costanza Meli
Prima di addentrarci nella dimensione del laboratorio e ragionare sull’esperienza in sé, vorrei avviare questa nostra conversazione con il primo spunto che avete comunicato a me e a Daria Filardo al principio: la scelta di lavorare sulla mappa. Il vostro progetto, iniziato come un dialogo con le antiche carte geografiche presenti nella collezione della Fondazione Sicilia, si è sviluppato attraverso la presa di coscienza della finitezza della mappa stessa e la necessità di oltrepassarne i limiti per estendere, attualizzare e rendere vivo il punto di vista sul Mediterraneo e sulla geografia che lo rappresenta oggi.
Vorrei chiedervi quindi com’è avvenuto questo processo in voi. Se vogliamo ragionare in termini più teorici, sappiamo bene che la cartografia è uno strumento complesso: essa utilizza da sempre forme e codici per “scrivere” l’ambiente, ma per farlo deve compiere necessariamente una selezione. Ogni mappa è dunque un coagulo di rappresentazioni, la cristallizzazione di una visione, di un programma ideologico, utopico e politico. Gli artisti, storicamente attratti da un oggetto così significante, lo hanno ridisegnato, reinterpretato, interrogato e stravolto in mille modi. Nella vostra riflessione sul Mediterraneo e nel successivo confronto con queste mappe, quale percorso avete intrapreso? Cosa vi ha condotto ad “aprire” la mappa per farne un vettore, un oggetto di relazione, più che di rappresentazione? Cosa immaginavate all’inizio e cosa vi hanno detto queste geografie, una volta che avete cominciato a percorrerle?

Bianco-Valente
Probabilmente le prime mappe realizzate dall’uomo, quando era ancora nomade, descrivevano percorsi più che territori ed erano rappresentate da filastrocche o veri e propri canti che enunciavano il susseguirsi di particolarità orografiche che si osservavano percorrendo il sentiero che collegava due aree diverse, così come suggerisce Bruce Chatwin nel suo Le vie dei canti . Quando l’uomo è diventato stanziale la mappa ha assunto nuove funzioni, dovendo rappresentare principalmente i territori, evidenziando i confini posti al limite delle diverse aree di appartenenza.
Il mare è sempre stato un discorso a parte, dove conoscere le rotte ha fatto la differenza fra la vita e la morte, fra la povertà e la ricchezza legata ai possibili scambi commerciali fra le differenti popolazioni.
Quando ci si allontana dalla costa non sono più visibili le sue forme all’orizzonte e quindi lo sguardo veniva rivolto al cielo, in particolare alle stelle e alle costellazioni usate per l’orientamento che venivano enunciate in racconti fantastici, creati per spaventare i non iniziati alla conoscenza della navigazione e che lasciavano immaginare incontri con mostri marini e pericoli di ogni genere, come ben illustra Elio Cadelo nel suo Quando i Romani andavano in America.
Quindi ancora una volta la mappa si lega al racconto e all’esperienza di viaggio, mentre con l’avvento della proprietà privata tutto sembra cristallizzarsi in una forma grafica che tiene conto solo del susseguirsi dei luoghi sulla terra o delle isole nel mare, ma non racconta più le storie e gli altri scambi che tengono insieme questi luoghi.
Il nostro lavorare con la cartografia è sempre consistito nel voler aggiungere altri livelli di lettura che raccontassero il legame delle persone con i luoghi e gli scambi più che i confini, ed è il modo in cui ci siamo attivati nella preparazione di Terra di me, che vuole riflettere sull’immaginario legato al Mediterraneo e su come esso sia tragicamente mutato dall’antichità a oggi, da quando questo mare è stato il mezzo attraverso cui è nata e si è potuta diffondere la cultura occidentale per come la conosciamo, fino ai giorni nostri in cui alcuni equiparano il Mediterraneo a un muro che vorrebbero invalicabile, dimenticando che l’uomo si è costantemente spostato sulla terra alla ricerca di migliori opportunità. Ed è proprio questo continuo rimescolamento di persone, lingue, culture, consuetudini e la necessità di superare le difficoltà che generano il progresso.

Daria Filardo
Una piccolissima premessa (prima di tutti gli studi geografici, storici e post coloniali contemporanei che si interrogano sul racconto del nostro presente e dei suoi molteplici e conflittuali punti di vista):
Fernand Braudel comincia il suo Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II raccontando il Mediterraneo a partire dai suoi confini montagnosi che si estendono in tutti i paesi che lo circondano, poi racconta le pianure e le colline, infine il deserto, il Sahara (ma non solo quello, parla anche delle rotte provenienti da est dell’Antilibano, dove comincia il deserto della Siria, e da nord del Mar Nero, dove sboccano le steppe del meridione russo, ambedue affacciati sul mare).
La straordinaria descrizione geografica racconta di una fortissima unità che oggi nel mondo globale sembra dimenticata.
Il Mediterraneo nella storia è stato il mare interno, spazio di comunicazione, di spostamento di merci e persone, teatro di immaginazione epica, teatro di guerre, luogo di stratificato sviluppo delle nostre civiltà.
Oggi sembriamo avere dimenticato tutto questo e il Mediterraneo è diventato una frontiera liquida dove però è impossibile alzare alcun muro. Il mondo globale, in cui masse di uomini si spostano da zone di sfruttamento e guerre, è paradossalmente più pieno di confini del mondo antico, che riconosceva similitudini fra i popoli.
Il vostro lavoro sull’immaginario del Mediterraneo infranto nel racconto delle persone che sono costrette ad attraversarlo e, una volta da ‘questa parte’, si trovano senza più una storia antica e comune, ma con tutto da ricominciare, ne è la testimonianza.
Il vostro modo di lavorare – da sempre interessato alle mappe, agli spostamenti, all’incontro con le comunità altre, alle congiunzioni astrali in cui nulla è per caso – si è trovato davanti (con questo progetto) a un Mediterraneo che non è più quello che pensavamo di conoscere; si è trovato davanti a una barriera che quasi ci impedisce di parlare perché le storie da raccontare sono troppo difficili da tradurre ed esigono una delicatezza diversa.
Come siete riusciti a ritessere una mappa comune del Mediterraneo? Quali sono state le questioni più urgenti da potere raccontare, o forse da non potere più raccontare perché troppo portatori noi di uno sguardo occidentale egemonico?

Bianco-Valente
Il nostro primo approccio al gruppo di ragazze e ragazzi migranti che abbiamo incontrato a Palermo era legato a una visione ormai datata del fenomeno migratorio.
Noi due siamo entrambi frutto di famiglie che sono emigrate e che hanno la maggior parte dei legami familiari sparsi fra il Nord Italia, la Francia, la Svizzera e la Germania, e credevamo che questo potesse darci una base comune su cui intessere dei ragionamenti. Niente di più sbagliato.
Le generazioni che ci hanno preceduto, emigrate dai piccoli centri delle aree interne del Sud Italia, fino quasi a svuotarli, non rischiavano la vita nei loro spostamenti e non è in alcun modo possibile assimilarli al flusso epocale, epico, di uomini e donne che raggiungono l’Italia dall’Africa sub-sahariana con ogni mezzo e in ogni condizione, spinti da guerre, privazioni e disparità sociali non sopportabili, quasi sempre innescate da interessi economici e strategici di potenze straniere o grandi multinazionali.
Sono bastate alcune frasi, i silenzi, sguardi e sorrisi disarmanti per farci capire che eravamo completamente fuori strada nell’immaginare la reale portata del dramma esistenziale celato nel cuore delle ragazze e dei ragazzi che ci hanno accolto a Palermo.
Essi, dopo aver intrapreso un viaggio che può durare mesi (ma più spesso uno o due anni) e aver rischiato più volte la vita mentre attraversavano il Sahara su mezzi di fortuna, oppure mentre lavoravano in Libia per mettere da parte il denaro necessario per pagare i trafficanti di uomini, o mentre erano in balìa del mare aperto su un gommone minuscolo, stipato di persone come loro a cui la vita sembra aver tolto ogni cosa, dopo tutto questo, arrivano finalmente in Italia, dove però scoprono presto di aver perso la propria identità e che per alcuni italiani non sono individui, ma solo un problema generico da risolvere in qualche modo.
Questa condizione farebbe impazzire chiunque, ma loro erano lì con una fierezza e una gentilezza incredibili che trapelavano dai loro occhi, dal sorriso e dai gesti, e questo confronto ci ha scosso e bloccato. Siamo abituati a relazionarci con gruppi di persone e con i tempi giusti intrecciare le loro esperienze e il loro sentire per realizzare un’opera, ma in questo caso l’entità delle esperienze vissute era nell’ordine di scale troppo diverse per essere immediatamente condivise. Le loro storie personali appartengono ognuna alla storia con la esse maiuscola, a un fenomeno che nella sua interezza e complessità è destinato a cambiare l’Europa in breve tempo, probabilmente già nel giro di qualche generazione, e si tratta di un fenomeno che non si può arrestare, ci si può solo illudere di farlo promulgando leggi oppure edificando muri e barriere.

Daria Filardo
Mi sembra di scorgere in questo lavoro un autore collettivo, vi riconoscete nella comunità che insieme a voi si è creata, ci sono stati temi – il viaggio, l’emigrazione (seppure in condizioni diverse) – che hanno un po’ risuonato con la comunità di migranti che avete incontrato?

Bianco-Valente
Palazzo Branciforte ospita ancora le storiche strutture in legno del Monte dei Pegni di Santa Rosalia, un luogo ricco di fascino, emblema dello stato di povertà diffuso anticamente a Palermo e nel Sud Italia.
Abbiamo deciso di visitarlo insieme alle ragazze e ai ragazzi migranti ed è stata l’occasione per parlare degli anni a cavallo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando le famiglie che erano in procinto di salpare per le Americhe come ultimo atto si recavano al Monte dei Pegni per lasciare le lenzuola, i materassi, le tovaglie e altre cose di casa recuperando così un po’ di denaro da portare con sé nel nuovo mondo.
Mentre Federica, l’assistente di produzione, illustrava questi aspetti, abbiamo visto lo stupore fare capolino sui loro volti che non conoscevano questa storia, ignorando che anche dall’Italia si partiva per viaggi così lunghi e che spesso non prevedevano il ritorno nelle terre d’origine.
Quello è stato un momento importante, in cui nel gruppo si è passati da una prima fase di conoscenza reciproca a una seconda fase in cui è stato possibile ipotizzare lo sviluppo dei temi che ci avrebbero portato alla realizzazione di nuove opere.
Abbiamo deciso di non indagare le loro storie personali o le cronache del viaggio per evitare ulteriore dolore, ci siamo piuttosto concentrati sull’immaginario che avevano dell’Italia prima del viaggio e come esso si sia adeguato o infranto sulle asperità della realtà che hanno trovato una volta giunti a destinazione. Un altro elemento emerso dal gruppo è stato quello di cambiare la prospettiva, guardando verso il futuro piuttosto che restare inutilmente concentrati su ciò che è stato.

Daria Filardo
Io credo che la dimensione narrativa nel vostro lavoro insieme a quella di sintesi visiva faccia intuire la trama del tempo e la ricchezza dei racconti che si celano dietro le vostre immagini o nei video. Potete raccontare del ruolo della parola nel vostro lavoro? E cosa ha guidato la scelta di parti di corpi – le mani o parte dei volti – nelle fotografie e nei video?

Bianco-Valente
Le mani e la parola scritta o parlata sono ricorrenti nel nostro lavoro, perché fanno riferimento ai due momenti chiave dell’evoluzione biologica in cui la specie umana si è differenziata dagli altri primati: la postura eretta ha liberato braccia e mani dal compito della deambulazione, ed è proprio con le mani che l’uomo ha iniziato a plasmare l’esistente; l’altro momento chiave è sopraggiunto con l’uso del linguaggio, attraverso cui è aumentata la coesione fra gli individui dei primi gruppi sociali che potevano così condividere esperienze, informazioni e visioni legate ai sogni e al trascendente.
Joseph Campbell, rifacendosi alla teoria junghiana degli archetipi, nel suo L’eroe dai mille volti suggerisce che è proprio quello il momento in cui sono nati e sono stati tramandati oralmente i primi miti, di cui poi ritroveremo tracce in ogni cultura e religione umana.
Il cervello si è così evoluto, sviluppando una marcata propensione nell’acquisire informazioni dall’ascolto delle esperienze altrui e attivando una relazione strettissima fra le parole e le immagini mentali, che si formano ogni qualvolta iniziamo ad ascoltare o a leggere una storia. Abbiamo una sorta di “dipendenza” dalle storie che manifestiamo già da piccoli, quando prima di addormentarci pretendiamo che ci venga raccontata una favola. Crescendo iniziamo a sfogliare i primi libri illustrati, passiamo poi alla TV con i cartoni animati e così via, con i romanzi, il cinema, le serie Tv e il piacere di scambiare le nostre esperienze con quelle dei nostri amici, sempre sottoforma di racconto, fino ad arrivare ai social, grandi infrastrutture create per diffondere il proprio auto-racconto, mentre si fruisce di quello degli altri. Assecondando questo bisogno naturale, quando ci troviamo a lavorare con gruppi di persone per lo sviluppo di una nuova opera, facciamo un passo indietro diventando un tramite, una sorta di catalizzatore, lasciando che l’opera emerga dall’intreccio delle esperienze delle persone che si relazionano con noi. Ovviamente in questo processo è quasi sempre implicata la parola, nel racconto delle proprie esperienze o nel rendere visibile agli altri una parte del proprio immaginario.

Costanza Meli
Concordo pienamente con gli spunti di Daria e con la sua riflessione sull’importanza della dimensione narrativa. La pochezza della mappa, definita infatti da un geografo come Farinelli un modello “miserabile” della realtà (poiché “sacrifica” ogni cosa pur di dare una sola informazione), corrisponde proprio all’insufficienza della dimensione solo rappresentativa, o spaziale. Secondo Farinelli il Mediterraneo rappresenta una enorme contraddizione, oggi riscontrabile nella realtà geopolitica, sociale, nelle dinamiche di gestione dei processi migratori. La contraddizione è dovuta al fatto che lo spazio è sì un’invenzione mediterranea (poi largamente esportata), ma lo spazio, nel Mediterraneo, non c’è mai stato. Il Mediterraneo è proprio il contrario dello spazio isotopico, razionale e centralizzato, su cui gli Stati hanno costruito la propria immagine e la mappa delle relazioni tra i popoli. Il Mediterraneo è uno spazio in cui esistono zone franche, città stato, zone di continuità, regole speciali, unità politiche piccole, economie “immateriali”. Il Mediterraneo è un “diaframma” tra l’interno e l’esterno, tra ciò che separa i popoli – come le identità nazionali e le realtà produttive locali – e ciò che invece li accomuna, ovvero lo scambio. In molti studi recenti, si parla della globalizzazione come un fenomeno non contemporaneo, ma endemico a un modello che si è originato proprio nel Mediterraneo. Un modello irriducibile alle logiche stataliste che ancora oggi cercano di governare il territorio attraverso l’irrigidimento dei confini e delle separazioni. Il Mediterraneo smentisce programmaticamente una visione politica fondata sulle identità nazionali. Gli incontri che ho fatto in questi anni, lavorando sul dialogo tra le persone migranti e le comunità locali, attraverso pratiche artistiche partecipative, sono stati quasi sempre caratterizzati dalla raccolta di memorie, narrazioni e testimonianze di chi il Mediterraneo lo ha vissuto, attraversato, o di chi non lo aveva mai visto prima di intraprendere il proprio viaggio verso l’Europa. Credo che ciò che abbiate vissuto in questa esperienza palermitana sia una condizione molto particolare: voi, mediterranei per eccellenza, avete iniziato a lavorare a Palermo – uno dei luoghi in cui questa condizione di eterogeneità è più visibile e presente tutt’oggi – insieme a un gruppo di persone dalle provenienze diverse, cui non avete chiesto di raccontarsi biograficamente. La narrazione, nella vostra proposta, non è legata alla testimonianza diretta, ma a una sorta di filo che attraversa voi stessi e il gruppo, intessendo un discorso. Questo filo è ciò che avete scelto di intrecciare, con una delicatezza e responsabilità interiore che mi piacerebbe sottolineare. Vi chiedo anche io dunque qualcosa sul narrare e il narrarsi. Le persone con cui avete sviluppato questo percorso non hanno necessariamente condiviso il Mediterraneo, non sempre lo hanno vissuto, non sempre sentono di farne parte. Siamo tutti noi il Mediterraneo, in un qui e ora storico e simultaneo. Come si va in cerca delle origini, noi torniamo sempre a questo non spazio di appartenenza, da cui prende avvio ogni necessaria ricerca di connessioni.

Bianco-Valente
Storicamente il deserto del Sahara ha rappresentato una barriera naturale, una sorta di mare interno, che di fatto ha diviso in due parti distinte l’Africa e che poteva essere attraversato solo dalle carovane di dromedari che mantenevano attivi gli scambi commerciali fra le popolazioni del Maghreb e i paesi dell’Africa subsahariana. E anche se adesso è possibile attraversare il grande deserto africano in maniera relativamente più agevole, su strade asfaltate a bordo di camion, il concetto di Mediterraneo, con tutto ciò che esso comporta riguardo a una sorta di identità culturale sovranazionale, resta pressoché sconosciuto agli abitanti dell’Africa subsahariana, che sono la gran parte dei migranti che cercano in Italia e in Europa migliori condizioni di vita.
Per cui hai ragione tu Costanza, il nostro nuovo concetto di “Mediterraneo” è qui e ora ed è tutto da costruire. A Palermo, per esempio, da sempre un luogo capace di ibridare le anime delle diverse culture che vi si sono affacciate, dalla fondazione della città da parte dei Fenici passando per Federico II di Svevia, il quale ci ha dimostrato quanta bellezza e ricchezza possa generare il dialogo interculturale, fino ai nostri giorni, in cui tutta la Sicilia e l’Italia si trovano praticamente da sole ad affrontare questo fenomeno migratorio epocale che, a seconda della prospettiva da cui lo si vuole guardare, ad alcuni appare come un problema insormontabile, mentre noi siamo fra quelli che lo vedono come una grande opportunità, in particolar modo per una nazione come la nostra che registra un grandissimo deficit demografico e il dramma delle aree interne svuotate da decenni di partenze senza ritorno.
Il dialogo che abbiamo provato a intessere con i giovani migranti incontrati a Palermo si è basato innanzitutto sul grande rispetto che abbiamo per loro come persone e per la storia di cui sono portatrici e portatori; non eravamo interessati tanto alla cronaca delle peripezie che hanno vissuto per giungere fino a noi, quanto a cosa era rimasto di veramente importante per loro dopo aver superato innumerevoli prove. Abbiamo chiesto loro di guardarsi dentro e di immaginare quale fosse la cosa più importante, la cosa che avrebbero voluto tenere sempre e comunque con sé e di renderla visibile per un momento, disegnandola o definendola con le parole sul palmo della mano per poi chiuderla portandosela al petto.
Uno dei video presenti in mostra sarà il montaggio di queste azioni, attraverso cui impareremo a comprendere l’altruismo e la grande scala di valori di cui sono interpreti questi uomini e donne.

Daria Filardo
Il progetto complessivo Terra di me oscilla fra l’utopia e il suo opposto, l’incontro reale e il percorso collettivo che avete fatto insieme alla comunità di migranti arrivati dal mare. In questa oscillazione hanno trovato forma i diversi lavori che presentate: raccontiamo ancora di questo viaggio.
Ci sono molte variazioni di azzurri nel collage ispirato alla lettura del Breviario mediterraneo, un’infinità di sfumature che costruiscono il nostro immaginario legato ai luoghi del Mediterraneo. Una specie di mappa fatta di strisce di carta. Di che utopia state parlando in questo lavoro?

Bianco-Valente
Predrag Matvejević in Breviario mediterraneo sembra riportare su carta un suo ininterrotto flusso di pensieri sul Mare di mezzo. Il filo del racconto sembra non arrivare mai a una conclusione, continuando piuttosto a includere nuove riflessioni, citazioni e considerazioni che spesso lambiscono la poesia. Ci ha colpito in particolar modo un brano del libro in cui l’autore parla del colore che assume questo nostro mare e, sottintendendo le similitudini (ma anche le tante differenze) che caratterizzano le diverse comunità che vi si affacciano, passa a enumerare le innumerevoli sfumature di colore che è possibile apprezzare osservando le sue onde, a seconda del luogo, dell’ora, del tipo di fondale, del tono che assume la porzione di cielo che lo sovrasta e ci si riflette dentro.
Tutte queste sfumature di colore vanno a comporre l’immaginario che associamo alla parola Mediterraneo che ciascuno custodisce nella propria mente e che a ben guardare è probabilmente diverso da individuo a individuo. Lo sanno molto bene i pubblicitari che attraverso le immagini si sforzano di dare un corpo univoco a questa visione evanescente. Il solo colore del mare in un determinato luogo può essere l’elemento che ci spinge a partire (scegliendo quel posto piuttosto che un altro), non fosse altro che per il sottile piacere che proviamo nel confrontare (sovrapporre) il nostro immaginario con la realtà, come spiega molto bene Marco D’Eramo nella sua recente pubblicazione Il selfi e del mondo.
Basandoci su questi presupposti abbiamo voluto realizzare un nostro personale Breviario del Mediterraneo, partendo dalle fotografie che pubblicizzano le località di mare o i villaggi turistici, di quelle che sono pubblicate sui cataloghi delle agenzie di viaggio e in cui il mare e il cielo appaiono sempre di incredibili tonalità di azzurro, blu, verde, etc.
Abbiamo ritagliato tantissime fotografie, ricavandone poi sottili strisce con diverse campiture di colore che abbiamo incollato accostandole insieme per comporre un grande collage che intende riassumere l’immaginario visivo del Mediterraneo. Di questo lavoro ci affascina il fatto che a un primo sguardo sembra essere un’opera digitale, pur essendo interamente realizzata a mano.

Daria Filardo
In uno dei video che avete realizzato per la mostra mi ha colpito il fiume di nomi che i partecipanti dicono: inquadrati solo sulla parte inferiore del viso, i migranti elencano il loro nome e poi le persone a cui sono più legate e noi non sappiamo se sono qui con loro o no. Dal numero di nomi sembra di intuire che siano – per la maggior parte – lontani; è la comunità che hanno lasciato e che non sanno bene se e come sarà possibile ricostruire. Un gesto semplice come dire dei nomi è un grido di dolore, di mancanza e insieme un modo per tenere viva la forza di questi legami. Tutti questi nomi riformano il mondo e insistono sull’identità individuale e collettiva che ognuno di loro porta con sé e che sembra sparire quando arrivano qui.
Ci raccontate da dove nasce l’esigenza di lavorare sull’identità?

Bianco-Valente
Abbiamo già accennato in precedenza al fatto che probabilmente lo sforzo più grande a cui è chiamato ognuno dei giovani migranti che approda in Italia e in Europa è quello di dover ribadire con forza e in ogni frangente la propria individualità, il proprio essere una persona. Bisogna ovviamente lottare per risolvere le tante contingenze quotidiane, restare a galla nel grande mare rappresentato dalla burocrazia che sembra voler sommergere più che aiutare, ma l’insidia più grande è la spersonalizzazione, il subire uno scoramento così grande da cominciare a credere di essere un problema generico e non più un individuo.
In una delle giornate di laboratorio abbiamo quindi proposto di realizzare delle scene video in cui ognuno ripeteva di continuo, lentamente, il proprio nome e cognome, affermando e ribadendo in questo modo la propria individualità.
Ma ciò che in parte ci denota come individui è anche la rete di relazioni (familiari, amicali, lavorative ecc.) che intessiamo e fortifichiamo con il nostro stare al mondo e che ci permette in ogni momento di sapere esattamente chi siamo e dove ci troviamo. Quindi, per una seconda scena dello stesso video, abbiamo invitato ciascuno a richiamare alla mente le persone con cui sentono di mantenere un legame profondo, non importa se siano qui con loro in Sicilia o lontane, nel luogo natio o in altre parti del mondo, e di pronunciare i loro nomi e cognomi, evocando così l’esistenza e la forza di questi legami contro cui nulla hanno potuto le tante difficoltà della vita.
L’uomo ha appurato fin dall’antichità che la parola non serve unicamente per trasmettere informazioni ma che è potenzialmente un tramite energetico e curativo. Questo è il motivo per cui i rituali sono composti da parole oltre che da gesti, e questo spiega anche il perché nelle società umane sia sempre esistita una figura di guaritore che provava a curare le persone con la parola, figura che si è poi evoluta nel tempo fino ad arrivare a quella attuale dello psicologo. Questo per dire che anche il semplice atto di ripetere il proprio nome o evocare quello di altre persone non è unicamente ciò che appare, ma ha potenzialmente delle ripercussioni molto profonde a livello energetico e negli individui.

Costanza Meli
Leggendo le vostre risposte mi è sempre più chiaro come la dimensione del laboratorio rappresenti, nel vostro lavoro, una sorta di incontro tra teoria e prassi, il luogo non soltanto della scoperta dell’altro, ma anche della verifica di ogni pensiero compiuto fino a quel momento. La vostra dimestichezza con le pratiche laboratoriali non può comportare la strutturazione di un metodo; al contrario determina la consapevolezza del bisogno di restare aperti, in ascolto, disponibili al cambiamento, adattabili e disposti a stupire e smentire se stessi. Vi chiedo dunque di parlarci di questo laboratorio. Come nasce l’incontro con questo gruppo di persone migranti, in che modo si è realizzata tra di voi una fiducia e la scelta di immaginare insieme, come è cambiato e cresciuto di volta in volta il vostro rapporto, se e quando avete provato a scambiare i vostri punti di vista e in che termini, soprattutto, è stata vissuta da ciascuno l’ipotesi di un intervento artistico?

Bianco-Valente
Fummo contattati dalla Fondazione Sicilia che era in procinto di organizzare una mostra delle mappe antiche della Sicilia e di parte del Mediterraneo presenti nella propria collezione e, sapendo che il nostro lavoro si era confrontato più volte con l’idea del viaggio e i concetti alla base della rappresentazione cartografica, ci chiesero se intendevamo prendere parte alla mostra creando una relazione fra alcune nostre opere e queste carte geografiche e nautiche tracciate a partire dalla metà del Cinquecento. Ovviamente fummo entusiasti della proposta e rilanciammo subito, proponendo di allargare il discorso a come era cambiato il modo di guardare al mare Mediterraneo nel corso dei secoli, da quando in epoca classica rappresentava l’equivalente del nostro internet (con tutto ciò che concerne gli scambi culturali e commerciali), fino ai nostri giorni, in cui c’è chi tenta di attraversarlo con ogni mezzo e chi invece vuole farlo diventare una barriera invalicabile.
Stiamo vivendo un momento chiave nelle relazioni fra l’Europa e l’Africa e non esistono mari, deserti, muri o guerre di religione che riusciranno ad arginare questo flusso.
Considerando il fenomeno a un livello superficiale si potrebbe pensare che il motore che genera questi spostamenti sia la disparità economica, in realtà la differenza a cui dobbiamo guardare è più profonda ed è quella demografica, con l’Europa che include le nazioni con il tasso di natalità più basso al mondo mentre l’Africa è uno fra i continenti più giovani.
Tutte queste persone si stanno quindi spostando rispondendo alla necessità di riequilibrare questa grande differenza, si tratta cioè di un fenomeno naturale che ha più a che fare con la biologia e l’antropologia che con la politica e l’economia. Poi ovviamente le guerre e le disparità sociali sono gli eventi scatenanti di questo fenomeno, quelli cioè che spingono di fatto le persone ad abbandonare ogni cosa e partire.
Per approfondire questi argomenti chiedemmo di strutturare il nostro intervento alla mostra come il risultato di due periodi di confronto con un gruppo di 15 persone che il Mediterraneo lo avevano attraversato e con le quali avremmo interagito per la realizzazione di alcune delle opere da presentare in mostra.
Il primo giorno in cui ci siamo incontrati a Palermo per noi è stato un vero e proprio choc, e abbiamo vissuto le giornate della prima settimana di laboratorio privi della lucidità necessaria per riuscire a pensare alle opere, tanto era forte la componente emotiva ed empatica che caratterizzava ogni incontro. La seconda volta che ci siamo incontrati abbiamo anche confessato la nostra decisione di interrompere quell’esperienza rinunciando al laboratorio, ma grazie a un loro suggerimento abbiamo invece deciso di continuare. Si è trattato di una vera fortuna, in quanto questa esperienza di Palermo è stata una delle più coinvolgenti a livello umano e artistico che ci sia mai capitato di vivere.

Costanza Meli
Uno degli elementi più delicati di un laboratorio interculturale è la lingua e, di conseguenza, la traduzione. Non si tratta soltanto delle parole, ma dei mille diversi usi e significati affettivi che esse portano con sé e che sono spesso intraducibili, rendendo difficile la rappresentazione di sé. Nel caso di un lavoro che nasce come pratica artistica, questo livello riguarda non soltanto la lingua parlata dal gruppo e dai singoli individui che lo compongono, ma anche l’uso di linguaggi diversi da quelli utilizzati nella semplice narrazione. Credo che questo sia sempre un fattore decisivo per operare il passaggio da un momento di scambio e condivisione di esperienze al momento della rielaborazione, dell’interpretazione del dato di realtà. Come è stato questo passaggio in questo caso? Si è trattato di un processo fluido, è stato occasione di discussione interna, o un processo a tappe che avete raggiunto in tempi successivi?

Bianco-Valente
Più delle differenze di lingua ciò che poteva minare il dialogo nel gruppo era la mancanza di fiducia, il sospetto che il nostro lavoro potesse non essere sincero, che fossimo lì solo per carpire l’ennesima testimonianza feticcio delle loro traversie di viaggio per esibirla in mostra. In questo ci hanno molto aiutato le mediatrici culturali e l’assistente di produzione che sono state le garanti delle nostre intenzioni, permettendoci di rompere più velocemente il ghiaccio e aprirci al dialogo, che è sempre avvenuto in italiano, inglese, francese e su alcuni punti con l’ausilio di chiarimenti in lingue locali che non conosciamo.
I primi giorni abbiamo mostrato loro alcuni esempi di opere che erano nate dalla relazione con gruppi di persone o intere comunità, chiarendo che anche in questo caso le opere sarebbero nate dall’intreccio delle esperienze e visioni emerse dal gruppo.
Poi, durante la seconda settimana di workshop, a più di un mese di distanza dalla prima, sono emersi gli stimoli che ci hanno condotto alla formalizzazione delle opere. A quel punto c’era un dialogo aperto nel gruppo e abbiamo sempre spiegato il senso profondo che intendevamo dare a ogni azione che chiedevamo loro di compiere e i loro interventi sono sempre stati pienamente consapevoli e determinanti.

Daria Filardo
Un’ultima riflessione la dedicherei a un oggetto leggero (e pesantissimo allo stesso tempo) che rimette insieme i viaggi di tutti: una grande tessitura composta da strisce di carta riempite di parole che raccontano di cose lasciate e portate con sé. La scrittura a mano di ognuno dei partecipanti si mescola con le altre e racconta. In un lungo viaggio come questo ciò che si lascia e ciò che si porta è molto importante. In che contesto hanno deciso di condividere l’intimità e la difficoltà di questa scelta? Vi siete raccontati tutti insieme o ognuno ha lasciato la sua muta testimonianza nella scrittura che è diventata una scultura collettiva?

Bianco-Valente
Nelle giornate di laboratorio a Palermo, dopo esserci concessi il tempo necessario per conoscerci, abbiamo compreso che non era importante la cronaca del viaggio e delle difficoltà contingenti, ma le donne e gli uomini con cui stavamo condividendo quel luogo e quei momenti, i loro pensieri e la loro percezione di questo momento storico e di se stessi.
Una delle azioni che abbiamo proposto di compiere è stata quella di descrivere su di un nastro di carta molto sottile, nella lingua che sentivano propria, l’immaginario che associavano alla destinazione prima della partenza e durante il loro lungo viaggio: cosa si aspettavano di trovare una volta giunti in Italia e come questo loro immaginario si sia poi scontrato con la realtà di una prospettiva di vita che sembra non voler dare nulla per scontato.
Attraverso una particolare tecnica di stampa, abbiamo riportato queste narrazioni in foglia oro (in totale contrasto con i temi trattati) e le abbiamo poi intrecciate fra loro, andando a comporre una tessitura che a prima vista appare preziosa per il luccichio che tutti conosciamo bene, ma che invece noi sappiamo essere preziosa per le aspirazioni, le delusioni e la grande determinazione che traspaiono dall’intreccio di tutte queste storie e visioni. A proposito di visioni, abbiamo scoperto che coloro che sembrano avere la visione più lucida e a lungo termine del fenomeno migratorio sono i mediatori e le mediatrici culturali, che su base volontaria svolgono un’incredibile lavoro di sostegno e interfacciamento fra i migranti, le istituzioni, la burocrazia e la società. A loro dobbiamo tutti tantissimo.

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Tratta dal catalogo della mostra "Terra di me" Silvana Editoriale, 2018

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