Agata Polizzi, Limes, 2018

La ricerca condotta da Bianco-Valente indaga il rapporto tra l’uomo e il paesaggio nella sua accezione sociale e culturale, analizza i contesti relazionali e le possibilità offerte dall’interazione tra questi fattori, il loro è uno sguardo che finisce per calarsi totalmente nell’oggetto d’indagine, diventa fisico, tangibile, trasforma il dato osservato in esito concreto, alimentando nuovi punti di vista.
Con Terra di me Bianco-Valente intraprendono un viaggio verso l’ignoto, sperimentano come la perdita delle certezze, anche quelle minime, può essere spiazzante e dolorosa ma anche infinitamente utile per ricordare quanto a poco serve nascondersi dietro di esse, scoprendo che oltre esistono nuovi percorsi di pensiero e di azione.
La matrice primaria del progetto ha una connotazione letteraria e documentaria, data dal dialogo tra gli artisti e un importante fondo cartografico conservato a Villa Zito a Palermo, mappe e carte nautiche relative alle rotte sul mar Mediterraneo dal Cinquecento al Settecento, che raccontano itinerari lontani lungo un territorio da sempre multiculturale e intensamente praticato. Da qui la necessità di un upgrade di questi itinerari, una naturale rilettura che inevitabilmente conduce dentro l’attualità e la cronaca, osservazione di una situazione sociologica e geopolitica fluida e fragile, troppo veloce e complessa per essere compresa sotto un’etichetta sola.

Bianco-Valente provano  come  atto  dovuto  a  riconsiderare  il  concetto di limes decidendo di oltrepassarlo e lo fanno attivando quello che si rivelerà un emozionante scambio di esperienze con un gruppo di uomini e donne, cittadini come loro del Sud del mondo, che spontaneamente e generosamente accettano di condividere le proprie storie di vita, i dubbi e le speranze per il futuro. Nascono dialoghi intensi, struggenti, veri, privi di artificio, come scaturiti dalla paura di dimenticare o dall’impossibilità di dimenticare, dal desiderio di capire.
Lo scenario è la città di Palermo, città confine, città porto per definizione, città con tante anime, tutte vere; qui s’incontrano le parole e lentamente tracciano una narrazione, incrociano sentimenti, costruiscono legami.
Diventano l’armatura del progetto di Bianco-Valente, i quali abbandonano progressivamente ogni controllo sul loro lavoro per lasciare che le idee fluiscano liberamente.
In questa ricognizione di storie gli artisti attivano una modalità sperimentale, un processo creativo e non per questo facile, in cui occorre continuamente calibrarsi, cercare le alternative.
Occorre  ridefi nire  l’oggetto,  letteralmente  “definire  di  nuovo”,  in  modo diverso o più preciso, occorre gestire il rapporto tra identità e differenze.   In  riferimento  alla  pratica  di  tracciare  dei  punti  di  riferimento,  propria della mappatura geografica, occorre trasferire dalle carte alla quotidianità l’esigenza di  ristabilire i  confini,  ciò che sta dentro  e ciò  che sta  fuori, confrontarsi con il bisogno di stabilire dove finisce e dove inizia la nostra esistenza, o meglio la nostra insicurezza.

L’elemento universale per sua natura in questo assunto è il mare, o meglio quella “confidenza sentimentale con il mare”, definita da Franco Cassano nel suo a mio avviso straordinario saggio sul Sud (Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996), in cui egli identifica il mare come un “parente più grande” capace di trasferire esperienza, come “casa in cui siamo nati”, ed è in questa lettura la chiave di comprensione di un’idea di partenza e appartenenza, che, citando ancora Cassano, “rende ogni uomo straniero e ogni straniero un uomo, rende compagna la scissione, ci fa abitare da più di un’anima”.
In questa comune esperienza, che esula da ogni forma di personalismo culturale o sociale, si gioca la possibilità di immaginare un orizzonte comune, circolare e infinito, distorto rispetto alla verità di partenza.
Terra di me cerca di descrivere una condizione che è fisica ma anche mentale, elabora un sentimento si sopravvivenza, capace di aggiungere valore a una condizione di sradicamento. Come di fronte a uno specchio che riflette qualcosa che non esiste davvero.
È illuminante  il  passaggio  di  Richard  Sennett  (Lo  straniero.  Due saggi sull’esilio, Feltrinelli, Milano 2014) in cui il sociologo descrive la teoria dello Specchio di Manet, ovvero il valore del riflesso delle cose rispetto a ciò che preferiamo riconoscere come nostro.
Ci mostra la fallacia di una solidità apparente e illusoria perché nata da una non esperienza del mondo.
Lo sradicamento che tutto rende confuso, incerto, lento a conoscersi. Non è reale il ricordo del passato perché sbiadito, non è reale il presente perché incerto.
Il tentativo dell’arte è forse allora offrire, in questo tempo sospeso, una visione accettabile di sé, un’immagine sopportabile della realtà, capace di restituire umanità allo sguardo, capace di mostrare la ricchezza che deriva dalle differenze.
Suggerisce di trovare un nuovo modo di essere individui e uomini liberi a prescindere dai luoghi, allontanandosi da un’impostazione superata di etnocentrismo e con esso da ogni atteggiamento valutativo, per ripensare la definizione di “centro” alla luce di una globalizzazione, che inevitabilmente ci rende tutti perennemente in movimento, in esilio volontario e temporaneo, consapevoli – mutuando le parole di Sennett – che “la patria non è un luogo fisico ma un bisogno che si sposta”, è da ritrovare ovunque si sia, la patria ci assomiglia, risponde alle nostre aspettative, è quel luogo e quel tempo dove è possibile guardare allo specchio e riconoscere la propria immagine.
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Tratta dal catalogo della mostra "Terra di me" Silvana Editoriale, 2018

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