Arte, reti, luoghi, relazioni, Maria De Vivo in conversazione con Bianco-Valente, 2015

Non esiste il singolo essere umano, puro e semplice, che non sia mescolato con altri esseri umani. [...] Siamo membra gli uni degli altri.
(Norman O. Brown, Corpo d’amore, 1966)


Bianco-Valente intraprendono il loro sodalizio di vita e di lavoro nella metà degli anni Novanta. L’assenza, per entrambi, di una formazione di tipo accademico dà a tale incontro un quoziente di imprevedibile e felice autonomia che tuttora ne connota la presenza sulla scena dell’arte italiana e internazionale. Con mezzi espressivi diversi, Bianco-Valente danno innanzitutto forma allo studio della dualità corpo‐mente e al rapporto tra naturale‐artificiale, e poi all’interesse per la scienza e la tecnologia, per la letteratura e i processi biologici. I loro lavori sono il campo di queste connessioni, la conversione in immagine, la sintesi visiva di tali interazioni dal forte «appeal estetico» (Sinigaglia 2015:7). Nella conversazione che si è svolta in conclusione dei lavori della prima giornata del convegno Reti performative (Napoli, 15‐16 gennaio 2015) e successivamente in forma privata, ho chiesto agli artisti di condividere idee e sguardi su alcuni concetti chiave del lessico performativo, dal momento che “processo”, “relazione”, “interazione” sono fondamenti anche della loro indagine. La visione e l’analisi di alcuni video e di alcune installazioni site specific più recenti, ha fatto emergere sia la centralità dei concetti appena rievocati che il loro intreccio con “parola”, “linguaggio”, “città”, “comunità” e, ovviamente, “emozione”, perché se esiste una costante che anima un itinerario così denso di aperture e ramificazioni, penso vada cercato nella capacità di coniugare la sfera emozionale alla complessità dei temi e delle riflessioni teoriche esplorati di volta in volta. Non c’è infatti teoria o riferimento scientifico in Bianco-Valente che venga usato in maniera autoreferenziale.

Maria De Vivo: Ci sono molti modi, anche molto diversi, per attraversare il vostro lavoro. Penso però che non si possa che cominciare da Materia Prima realizzata nel 1994 quando avete messo un chiodo su Napoli. Non concepita come un’opera, Materia Prima ha superato lo spazio privato di un inizio – della vostra storia insieme e della vostra storia come Bianco-Valente – ed è stata esposta nel 2008.

Bianco-Valente
: Materia Prima è stata realizzata un po’ per gioco in un momento in cui altri artisti si allontanavano da Napoli per cercare maggiore visibilità e attenzione. Sancisce simbolicamente la nostra decisione di rimanere in questa città, nel luogo dove ci siamo formati.


MDV: Napoli non è però la città che vi ha “imprigionati”, ma una sorta di snodo da cui avete intrapreso numerosi progetti e numerose avventure. E come una dichiarazione insieme programmatica e lungimirante, Materia Prima ci suggerisce che il vostro lavoro è fatto di mappe, di incroci, di luoghi e di relazioni con lo spazio fisico e con le comunità che lo abitano. Napoli è il punto di partenza della vostra storia, ma è diventata anche il luogo dei vostri innumerevoli ritorni.

B-V: L’abbiamo realizzata per dire “restiamo qui” e l’abbiamo esposta quando il nostro essere rimasti non poteva più esser interpretato come una rinuncia. Abbiamo consapevolezza di quanto sia complesso vivere a Napoli, quanti sforzi comporti, ma ogni volta che siamo lontani, ogni volta che esploriamo un’altra città, ci accorgiamo di quanto sia importante. Ci capita, in verità, anche quando siamo qui. Sarà un luogo comune, ma sentiamo un’attrazione particolare per questa città. È questo equilibrio precario, al limite fra l’ordine e il caos ad attrarci. Una condizione di enorme potenzialità. Tutte le forme di vita, per acquisire più energia possibile dall’esterno, devono organizzarsi a un livello molto alto di complessità, in un sistema sempre instabile, che esiste al limite del caos, come ha spiegato Waldrop (1996). Napoli è così.


MDV: Napoli, infatti, accumula e stratifica, tanto che la compresenza di tempi diversi è costantemente sotto i nostri occhi e il rapporto tra il passato – la sua forza e i suoi umori – e il presente è fortissimo. Mi sembra che la città sia per voi scenario e musa, matrice e approdo. Mi è rimasto molto impresso il racconto che tempo fa, in uno dei nostri primi incontri in vista del convegno, avete fatto delle modalità con cui nascono i vostri lavori, ovvero non in atelier ma dal dialogo fra voi mentre attraversate la città. Una modalità che allora mi sembrò molto vicina alle pratiche situazioniste e al concetto di “deriva” di Guy Debord che invitava ad attraversare la città senza schemi, senza meta né orario, scegliendo il percorso non sulla base di ciò che si sa ma di ciò che si vede intorno.

B-V: Quando cominciamo un lavoro non partiamo mai da un’idea precostituita. L’idea deve nascere dal ragionare insieme, dal confronto. È quello che facciamo abitualmente insieme, ma è così che agiamo anche quando siamo in gruppo.
Ma lo sforzo da fare, quando si ragiona del nostro lavoro, è partire da un punto di vista precedente, oseremmo dire biologico. Prima della sovrastruttura legata alla socialità, bisogna ricordare che le prime comunità erano comunità nomadi. Piccoli gruppi che si spostavano sul territorio alla ricerca di cibo. Poi si è ritenuto più conveniente coltivare, fermarsi in un luogo, costruire città. E sempre prima di immaginare la relazione da un punto di vista sociale, bisogna pensare che è esistita la grande relazione fra le diverse forme viventi. Spesso ciò che ci muove è lì, qualcosa che si colloca a un livello ancora più profondo, più ancestrale.


MDV: Mi pare che in generale i vostri lavori mettano costantemente in comunicazione il passato, e i saperi antichissimi, con il futuro. E lo stesso utilizzo delle nuove tecnologie è concepito sempre alla ricerca delle emozioni. Anche le vostre strategie di mappatura e di “interrelazione” viaggiano mobili nel tempo e nello spazio come se attuassero una reinvenzione della memoria, una sua rivivificazione. C’è l’analisi del funzionamento della mente al centro di tutto questo, e la riattivazione e la riscoperta di queste emozioni ancestrali ne è la conseguenza.
Nella nostra prima conversazione abbiamo ragionato sulla parola “interazione”. Lavorare in coppia è già un buon modo per mettere alla prova, per testare la complessità, i rischi e i benefici di tale processo. Una scommessa cominciata innanzitutto da voi due.

B-V: Tutto è cominciato da un innamoramento, dalla voglia di fare le cose insieme. Avevamo le stesse passioni per cui abbiamo cominciato a fare delle sperimentazioni. Ed è stato un flusso continuo dall’inizio. Quando è iniziata la nostra storia è nato anche il progetto Bianco-Valente ed è stato un flusso ininterrotto.


MDV: Bianco-Valente è il frutto della vostra interazione. Il trattino tra i vostri nomi che valore ha?

B-V: Il trattino denota un’identità che mantiene “visibile” ognuno di noi, ma è anche un trait d’union che ci collega e ci fa diventare una cosa sola. Ci piace che all’esterno il nostro lavoro appaia come appartenente a un’unica entità. Non è semplice, ma dopo tanti anni è diventato quasi naturale.


MDV: Penso che questo sia stato l’esercizio più attivo ed efficace nel pensare e modulare il rapporto con gli altri. Il vostro lavoro, frutto di una negoziazione, di uno scambio, di un dialogo, è come se avesse “formato” il rapporto con gli altri. Anche se l’esterno vi percepisce come “uno” è un “uno” che ha sempre bisogno dell’altro per esistere.

B-V: Siamo talmente abituati a lavorare in questo modo che probabilmente da soli smetteremmo. Prima di conoscerci non facevamo gli artisti, conosciamo solo questo modo di operare, in fondo.


MDV: È come se la vostra forma d’interazione si propagasse. Come se voi stessi foste un hub mobile e temporaneo da cui partono linee che incrociano gli altri.

B-V: La estendiamo agli altri, anche gli altri hanno cose da dire e da portare. Abbiamo letto da poco un libro molto interessante in cui ci siamo ritrovati, si intitola La mente estesa di Rupert Sheldrake. Nelle riflessioni del biologo inglese, la mente non è qualcosa di circoscritto solo al cervello, solo al corpo. Nell’atto di vedere, ad esempio, la mente esce fuori dal corpo e tramite la generazione di campi entra in contatto con l’esterno. Quando lavoriamo in gruppo, comincia a crearsi un campo generato da un ragionare condiviso: un campo di interazione fra le menti. Da questo processo scaturiscono delle parole chiave; emergono da una sorta di rumore di fondo che si lascia decifrare. Un’onda “precisa” nel mare che ha una forma indistinta.
Lo spunto per realizzare l’opera è lì.


MDV: Non è un caso che, sia nel recente volume di Caterina Senigallia (2015) che nella lunga intervista di Antonello Tolve (2011), sia stato fatto il nome dello scienziato e psicologo Gregory Bateson con i suoi studi raccolti in Mente e Natura. Bateson sostiene che l’individuo non esiste in sé ma come prodotto di un’interazione. È all’interno di «costellazioni d’interazione con altri individui» che lo sviluppo del sé avviene, perché «nessun uomo è “ingegnoso”, dipendente o “fatalista” nel vuoto. Una sua caratteristica, qualunque essa sia, non è propriamente sua, ma piuttosto di ciò che avviene tra lui e qualcos’altro (o qualcun altro)» (1978:326). Tenendo a mente Bateson, mi sembra che questa prospettiva sistemica dia all’aggettivo “relazionale” un’eccedenza di senso che rende stretto, nell’interpretazione del vostro lavoro, il significato che tale termine ha assunto nella teoria di Nicolas Bourriaud alla fine degli anni Novanta, proprio quando voi esordivate. Nel vostro caso la matrice è scientifica ed è significativo notare che Bateson sia una delle menti, già dalla fine degli anni Sessanta, delle ricerche sulla cibernetica.
Se l’Esthetique relationelle è stata un’etichetta comodissima per inquadrare pratiche artistiche che sarebbero rimaste senza una dimora teorico‐critica, sarebbe riduttivo immaginare, come dice anche Claire Bishop tra le più severe e strenue contestatrici di Bourriaud, che l’arte relazionale sia in grado di coprire tutti gli spazi.
Siamo d’accordo che il relazionale così come viene inteso da Bourriaud non è per nulla sovrapponibile alla vostra idea di relazionalità. Perché mi sembra che nel vostro caso ci sia la scienza intesa in senso ampio di cui tener conto, la psicologia, gli aspetti cognitivi.

B-V: Dal 2001, dopo aver approfondito la teoria delle “Rivoluzioni Solari Mirate” di Ciro Discepolo, abbiamo intrapreso viaggi intercontinentali verso destinazioni il più delle volte lontane da tutto e da tutti. In questi luoghi scelti secondo calcoli astronomici e combinazioni astrali, più che dar vita a un lavoro di tipo sociale attraverso interviste o raccolta di materiale documentario, abbiamo cominciato a interrogarci sulla relazione fra il tempo e lo spazio e sui legami apparentemente invisibili, che uniscono tutte le cose.
Anche se non c’è alcuna possibilità di verifica, abbiamo acquisito la consapevolezza che sia possibile influenzare il proprio destino, migliorandolo. Quest’idea, piano piano, ne ha fatta sorgere un’altra, ovvero che siamo tutti in “relazione”, legati da una rete. Partendo si può modificare la trama di questa rete o si possono avvicinare alcune cose e lasciarne altre.
Da qui abbiamo cominciato a ragionare sui fili che ci legano tutti, invisibili agli occhi ma intuibili. Se pensi alle coincidenze puoi immaginare davvero che ci siano dei fili che ci legano. Realizziamo allora opere che rendono manifesti questi fili, li rappresentiamo come accade nella serie di lavori dal titolo Relational. Sono fili di cui immaginiamo l’esistenza tanto da volerli rendere manifesti. Ma il discorso è duplice: da un lato creiamo opere in cui questi fili sono visibili, dall’altro creiamo dei fili con le persone con cui abbiamo a che fare o con i luoghi che approcciamo di volta in volta.


MDV: Torniamo per un attimo alle parole chiave. Quali sono quelle che vi rappresentano? Quelle imprescindibili che riescono a sintetizzare il vostro lavoro?

B-V: “Parola”, e poi “percezione”, “visione”.


MDV: È singolare, ma anche molto affascinante, che degli artisti visivi pensino a “parola”.

B-V: Attraverso la parola ci siamo conosciuti, attraverso la parola sviluppiamo delle idee, attraverso la parola condividiamo progetti con altre persone, creiamo relazioni da cui nascono i nuovi lavori.


MDV: Sono parole che diventano immagini, strumenti di condivisione, un modo per intraprendere e intessere “conoscenza”. Le parole, come voi le intendete, hanno un forte valore performativo, nell’accezione che ne ha dato Austin in How to Do Things with Words, producono/generano fatti, “condivisioni” ma lo fanno nella loro dimensione creativa ed “espositiva”. Pensiamo a Qui, lontano un progetto speciale realizzato per Arte Pollino nel 2012.

B-V: Per il progetto Arte Pollino abbiamo pensato di mettere “in rete” i racconti degli abitanti dei paesi di Chiaromonte, Latronico,
San Severino, Senise, Terranova, Viggianello sui paesi limitrofi. Il Pollino è una catena montuosa che divide la Basilicata dalla Calabria. Frequentando Latronico di cui Giovanna è originaria, ci siamo resi conto di una cosa in apparenza banale ma che è diventata materia di riflessione: non sempre la prossimità territoriale è garanzia di contatto diretto. Siccome le strade in questa zona sono tortuose, diventa difficile spostarsi agevolmente da un paese all’altro. Accade quindi che le persone non conoscano luoghi che si trovano solo a 30/40 km di distanza. Abbiamo pensato allora di mettere in relazione questi luoghi attraverso l’immaginario di chi li abita.
In che modo una persona immagina un luogo “altro” che non ha mai visto oppure ha visitato in un passato lontano, di cui conosce, perché li ha ascoltati sin dalla gioventù, storie e racconti?


MDV: Avete quindi raccolto parole, frasi, storie...

B-V: Grazie al supporto dell’associazione, abbiamo fissato alcuni incontri con le persone e posto essenzialmente questa domanda: «sei mai stato nel paese “x”?». Alcuni ci hanno raccontato le loro esperienze dirette, altri, che non c’erano mai stati, ricordavano cose raccontate da qualcun altro. Abbiamo registrato le conversazioni, raccolto storie anche toccanti come il viaggio di alcuni emigranti verso la Germania con sosta a Latronico per far tappa in un negozio di biscotti poi sgranocchiati durante il tragitto. Racconti dai quali abbiamo deciso di estrapolare alcune frasi. Frasi essenziali come “di notte la luna ti indicava la strada”, “un tronco d’albero fuori all’uscio come promessa”, “uno sguardo e una stretta di mano per fare un contratto”.
Così è nata l’idea di fare una campagna di affissione. Le frasi emblematiche che descrivevano il territorio ma soprattutto il modo con cui le persone si rapportavano a esso, sono state stampate su manifesti molto semplici dove non c’era nessun riferimento specifico. La cosa che ci ha colpito è che laddove provavamo a farci raccontare l’architettura dei luoghi, gli intervistati ci parlavano delle persone, quasi tutto il resto non fosse importante.


MDV: Come se le parole raccolte, le frasi condivise fossero diventate elemento di relazione tra queste comunità diverse. Parole che avete affisso, che avete esposto.

B-V: La campagna di affissione ha previsto che in ogni paese venissero affissi i manifesti con le parole degli “altri”. La nostra idea era quella di costruire una nuova geografia fatta di immaginazione e di memoria.


MDV: Già da questo lavoro si evince la modalità con cui procedete. Non arrivate con un lavoro già fatto come dei conquistatori o degli occupanti, ma lasciate che il lavoro scaturisca dalla relazione con le persone all’interno della comunità. La site-specificity nel vostro caso si declina con il tempo, la memoria, la geografia emotiva.

B-V: A noi interessa mettere in relazione le persone. Se questo avviene attraverso il racconto è molto importante.


MDV: Accade spesso che i vostri viaggi, le vostre esperienze, le vostre relazioni si narrativizzino in immagini, e laddove chiedete parole e mettete in circolo parole, sono parole che poi diventano immagini, e in questo intendo dire che sono parole che si espongono, sono sintesi visive di un lavoro di condivisione. Qualcosa di analogo è accaduto in un altro territorio, molto più lontano: a Becharre, in Libano.

B-V: Becharre si trova sul crinale di una vallata in un territorio particolarmente caldo dal punto di vista geopolitico. Nel 2013 siamo stati invitati dall’associazione Front of Art per il progetto A Place For Action, a cura di Katia Baraldi e Laure Keyrouz. Abbiamo vissuto lì 3 settimane, ospiti di una famiglia libanese appartenente a una comunità cristiano‐maronita. In un territorio del genere che fa i conti quotidianamente con il conflitto viste le pressioni dei paesi limitrofi Siria e Israele, abbiamo deciso di lavorare sul tema della guerra, nello specifico sul fatto che le persone tendono a tenere nascoste le proprie angosce. Quello che volevamo era far emergere i loro pensieri, le loro paure e i desideri, renderli manifesti, condividendoli.
Abbiamo chiesto del passato e del futuro e “come può essere la vita in questo luogo”. Tra le tante emozioni raccolte, è emersa un’avversione per il cemento armato. Sui muri “odiati” di cemento, hanno trovato ospitalità frasi estrapolate dai numerosi racconti. Abbiamo trascritto frasi come “eravamo come un cuore che ride in mezzo al campo”; “la speranza è nelle nostre mani”.
Lavoriamo molto sulla parola e sulle mani. Mani che compiono azioni. Se ci rifletti l’uso del linguaggio e l’uso delle mani sintetizzano i due step evolutivi che ci differenziano dagli altri primati. Possiamo plasmare il mondo, modellarlo con le mani e le parole.
In Come il vento abbiamo ragionato sul modo con cui l’uomo si è propagato sulla terra, spostandosi, portando con sé le proprie storie, le proprie idee, la propria lingua. È “nel vento” che si incontrano le persone, si ibridano le storie, le lingue. Per alcuni dei nostri progetti abbiamo utilizzato il titolo Come il vento: hanno in comune l’essere “fatti” dalla materia dei racconti delle persone che tornano alle persone. In fondo, rimettere in circolo le idee e le immagini mentali è una cosa che ci piace e a cui teniamo moltissimo.


Bianco-Valente, Cosa Manca, 2014, progetto per Front of Art, Roccagloriosa (backstage).

MDV: A Roccagloriosa, invece, un piccolo paesino in provincia di Salerno dove avete lavorato nel 2014 sempre invitati da “Front of Art” la vostra attenzione ha riguardato i bisogni: “Cosa manca?”, avete chiesto.

B-V: Le risposte che abbiamo ricevuto a una domanda in fondo essenziale nella sua semplicità, dopo essere state annotate sul taccuino, hanno trovato spazio su vecchie tovaglie e lenzuola che abbiamo chiesto in dono alle persone coinvolte.
Ricopiate su questi oggetti dal forte valore simbolico, per il bagaglio di condivisione e intimità che portano con sé, le risposte sono state rimesse di nuovo in circolo, perché ogni pensiero potesse dar vita, voce e forma ai bisogni di altre persone.


MDV: In questo come in altri progetti, diventate un tramite per “organizzare l’interazione”, uno strumento per offrire alle persone un’altra prospettiva, un altro modo di vivere insieme.
La natura dialettica dello spazio pubblico è un tema particolarmente indagato nell’arte e nella critica più recente. Per Common Spaces del 2014, la mostra finale dell’Independent Study Program del Whitney Museum di New York, invitati da Maria Teresa Annarumma, avete presentato la terza versione di Costellazione di me.


Bianco-Valente, Costellazione di me (Constellation of me), 2014, backstage ISP Whitney Museum/The Kitchen, NYC.

B-V: Abbiamo lavorato sul posto, in particolare a Chelsea che oggi è una delle zone newyorchesi più eleganti con un’altissima densità di gallerie e di boutique di lusso. Fino a 35‐40 anni fa, Chelsea era un quartiere portuale e industriale, poi ha subito un processo di gentrification. Per esplorare i cambiamenti di questo quartiere abbiamo organizzato dei laboratori con le persone anziane residenti lì da sempre in quelle che chiameremmo “case popolari”, le Fulton Houses ad affitto morigerato.
Quelle stesse persone sono state invitate a trascrivere di proprio pugno le loro storie e il loro rapporto con quei luoghi – anche quelli che non esistono più – sui muri della galleria The Kitchen che ha ospitato la mostra finale.
Nello spazio espositivo, i punti chiave da loro individuati sulla mappa sono stati trasposti sulle pareti. A partire da quegli snodi, traccia delle loro singole esperienze, sono state disegnate linee di parole che si sono intersecate occupando due pareti angolari della galleria.


MDV: Spazio, tempo, memoria sono ritornati ridisegnati dalle parole di una nuova costellazione, perché l’atlante di Bianco-Valente è un “atlante delle emozioni” che ci mostra che i luoghi sono fatti dalle persone che li abitano, dalla loro storia e dalla loro percezione del territorio. C’è un aspetto narrativo molto forte in questo come in altri lavori.

B-V: Oggi ci piace pensare che nei nostri primi lavori c’era già una traccia di questo approccio. Altered State del 2001, ad esempio, è un lavoro fatto solo di parole sui diari dello scienziato Albert Hoffmann che ha scoperto l’LSD. Anche in Unità Minima di Senso del 2002, su di un sottile nastro di carta lungo un chilometro e mezzo, la scrittura ha “tradotto” le immagini e i ricordi che più hanno segnato la nostra storia personale. Paradossalmente in quegli anni sostenevamo quasi con orgoglio che i nostri lavori non avevano nulla a che fare con la narratività. Non erano dei video con storie lineari e non avevano una struttura temporale definita, non c’erano attori che recitavano una parte. C’era qualcosa di più profondo, legato all’interiorità, al subconscio.


MDV: Queste tracce sono riemerse carsicamente con un’altra veste, tanto da poter affermare che Bianco-Valente sono negli anni rimasti fedeli a un’idea di fondo pur continuando a sperimentare.



Bianco-Valente, Illimite, 2014, Video, 2’49”, musiche di Andrea Gabriele.

La nostra conversazione si è conclusa con la visione di Illimite, video del 2014 accompagnato dalle musiche di Andrea Gabriele. Da tempo Bianco-Valente giocano, per dirla con il Walter Benjamin delle Cronache berlinesi, ad articolare lo spazio della vita in una mappa. Trame, cuciture si innervano sulle carte di luoghi significativi perché le mappe, è dato acquisito e radicato in una tradizione artistica che tiene dentro Alighiero Boetti, On Kawara e Jan Dibbets per citarne solo alcuni, «non sono unica‐ mente strumenti di misurazione topografica» (Pignatti 2011:8) ma molto altro ancora. Sono spazio dell’incontro e della relazione, spazio dello scambio e del mutamento dove proiettare la vita e rinegoziare confini, frontiere. Se una mappa opera una riduzione quantitativa, qualitativa, selettiva di ciò che si vuole rappresentare, se una mappa serve a nominare i luoghi, a descriverli, a “possederli” e a orientare, Bianco-Valente non corrono il rischio di «produrre un’idea di mappa riduttiva, posta interamente al servizio del potere» (Bruno 2006:188). La loro è una mappatura “tenera”1, frutto di un lavoro collettivo che porta inscritto a più livelli il senso profondo della “relazione” e un’idea del mondo continuamente in movimento, continuamente da ridisegnare.
1 L’aggettivo è usato nella specifica accezione che ne dà Giuliana Bruno facendo riferimento a Madame de Scudery e alla sua Carta del paese della tenerezza del 1654, la cui descrizione costituisce l’incipit del volume Atlante delle emozioni.

Riferimenti bibliografici
- Bateson George, 1978, Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi.
- Bruno Giuliana, 2006, L’atlante delle emozioni, Milano, Bruno Mondadori.
- Pignatti Lorenza, ed., 2011, Mind the Map, Milano, Postmedia Books.
- Sinigaglia Caterina, 2015, Il libro delle parole, Milano, Postmedia Books.
- Tolve Antonello, 2011, Geografia delle emozioni, Fisciano,MMMAC.
- Waldrop Morris Mitchell, 1996 (1993), Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos, Torino, Instar Libri.
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Tratto da Reti performative, letteratura, arte, teatro, nuovi media, a cura di C. M. Laudando, Tangram Edizioni Scientifiche, Trento, 2015

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