Bianco-Valente, Costellazione di me, 2012, Galleria Fabio Tiboni / Sponda, Bologna, con un testo di Pietro Gaglianò
Carboncino su muro | charcoal on wall _ foto di Michele Alberto Sereni _





La condizione umana
di Pietro Gaglianò


Plurality is the condition of human action because we are all the same, that is, human, in such a way that nobody is ever the same as anyone else who ever lived, lives, or will live”.

Hannah Arendt, The Human Condition [i]

Nella sua analisi della condizione umana Hannah Arendt chiarisce che il motivo principale dell’intollerabilità della società contemporanea, da lei individuata come società di massa, risiede non tanto nel numero di individui che la affollano, quanto nel “fatto che il mondo che sta tra loro ha perduto il suo potere di riunire insieme le persone, di metterle in relazione e di separarle”[ii]. Lo spazio sociale, composto da comunicazioni verbali e segni condivisi, quell’estensione allo stesso tempo fisica e intangibile in cui si definisce la qualità specifica della civiltà, si è degradata in forme deteriori in cui è difficile fare emergere quelle differenze che rendono necessaria la comunicazione, e quei tratti comuni che la rendono possibile in qualsiasi forma. Al tempo di Internet sono cambiati alcuni termini di riferimento, di natura tecnica e di scala numerica, ma quel “mondo  che sta tra loro” non comprende ancora la capacità di immaginare la pluralità degli individui consapevolmente attivi nella creazione della sfera pubblica.

Attraverso i secoli e le culture la visualizzazione della dimensione in cui avviene (dovrebbe avvenire) questa partecipazione collettiva risponde sempre all’idea di una superficie che accoglie una rete di passaggi, sia essa l’agorà della civiltà greca o il web[iii]: una mappa, una sintesi grafica di uno spazio concreto o virtuale che può riguardare un gruppo più o meno ampio di interlocutori e qualsiasi piano di comunicazione. Giovanna Bianco e Pino Valente sperimentano una possibile interpretazione di questa raffigurazione, comprendendo il contenuto che genera concettualmente la mappa (il suo valore intellettuale) come elemento costitutivo e grafico della stessa. I processi e l’esito del progetto Costellazione di me sollevano inoltre una serie di interrogativi sul senso e sul significato delle mappe, pervenendo ad attuarle come “una pratica operativa che da una parte scava, trova ed espone, dall’altra genera relazioni costruttive”[iv]. Il riferimento dichiarato da parte degli artisti all’universo teorico di Gregory Bateson restituisce la dimensione demiurgica e creativa che appartiene a qualsiasi procedimento cartografico: la capacità di descrivere (funzionalmente) un territorio materiale o immateriale, ma anche di inventarlo (proprio secondo il senso che risiede nell’etimologia di questo termine, il latino ‘invenire’ che si traduce come ‘scoprire’, ‘trovare’).

Le Costellazioni di Bianco-Valente danno notizia di qualcosa già avvenuto (lo scambio di contenuti e contatti tra soggetti diversi e tra loro remoti) ma, principalmente, mostrano la trama complessa delle traiettorie lungo le quali si sono attuati questi rapporti e la concatenazione latente tra i diversi interlocutori. La specificità formale delle Costellazioni non è riducibile a un’indicazione di lettura, ma riguarda le possibilità aperte dall’emersione di questa rete. Nessuna mappa è neutra e nessuna mappa è mai definitiva; infatti, oltre alla trasformazione intrinseca delle superfici tradotte dal dispositivo di rappresentazione, è indispensabile tenere presente proprio la nuova dimensione entro la quale si percepisce la superficie con i significati aggiunti, o rivelati, dal sistema cartografico.

Le Costellazioni esprimono quindi un dato oggettivo ma lo legano inevitabilmente all’esperienza soggettiva, come è dichiarato nel titolo stesso del lavoro; il riferimento all’autore, ‘me’, suggerisce due parafrasi: la più diretta indica appartenenza e annuncia la costellazione in quanto messa in scena della rete relazionale che mi comprende e di cui sono il soggetto principale; la seconda dichiara invece il punto di vista: la costellazione che io vedo, quella che solo io posso delineare in quanto la emetto come punto di scaturigine. Questo riconduce alla peculiarità formale delle Costellazioni, che paiono tendere alla più piana chiarezza. Il limite di ogni strumento cartografico sta nella possibilità di decodificarlo, nella condivisibilità della sua legenda, cioè della chiave di accesso alle informazioni che contiene – “che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò: i limiti del linguaggio (del solo linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo” scrive Wittgenstein nelTractatus[v]. Bianco-Valente semplificano al massimo i codici necessari mettendo in evidenza l’aspetto complessivo: la natura rizomatica dei legami tra le persone, che si propone come concetto (appunto la costellazione) già nella sua stessa esistenza.

Mark Lombardi chiamava le proprie rappresentazioni grafiche di relazioni tra i poteri (politici, finanziari, e altre egemonie occulte) “narrative structures”, centralizzando così il senso del proprio lavoro sulla qualità dell’informazione che vi era contenuta e sul valore, quasi funzionale, del diagramma che la esprimeva. Le Costellazioni di Bianco-Valente percorrono questa stessa idea di conferire una capacità narrante al sistema che viene messo in opera, ma il superamento della prospettiva funzionale permette di dare spazio a sfumature di tono emotivo, intellettuale o addirittura affettivo. La connessione di strutture complesse (le persone) in una rete organizzata diventa così lo strumento per formulare una estetica dell’informazione, e dimostra (e contemporaneamente fortifica) l’esistenza di altri modelli di relazione. Il progetto si trova in linea, ancora una volta, con il punto di vista di Bateson: Costellazione di me rigetta un sistema dei rapporti interpersonali dominato da una gerarchia asettica di ascendenze e classificazioni, e ammette l’oscillazione del dubbio e dell’errore nella rappresentazione necessariamente parziale e imperfetta di un insieme, quello delle relazioni, che è propriamente instabile e flessibile anche nella dimensione del suo divenire.

L’astrazione richiesta dal disegno con cui si presenta la Costellazione è per sua natura irrelata rispetto al tempo che attraversa, e immette in questo suo limite la necessità di superare il disegno stesso. La Costellazione è implicitamente infinita, anche nel caso del progetto proposto a Bologna, in cui si riferisce a un sistema chiuso di contatti (concluso semplicemente per via dell’estinzione di tutti gli interlocutori coinvolti), perché la sua perfettibilità è congenita alla materia stessa di cui è fatta la conoscenza. Anzi, la visualizzazione stessa della rete tende proprio al chiarimento della sua capacità plastica, ma anche della sua inattendibilità, soggetta com’è all’arbitrio non solo di chi la compone (e definisce in questo modo i termini della sua estensione temporanea), ma anche di chi la legge.

Così Bianco-Valente assistono alla moltiplicazione radiale dei tracciati, allo slittamento di senso che possono assumere i trasferimenti di informazioni, attraversando i linguaggi e mediandosi negli strumenti, moltiplicando il fattore di alea costituito dal condizionamento culturale che compone la complessità del dato trasmesso (il riferimento, in particolare, è al progetto presentato a Marrakesh nel 2011). Il loro punto di vista mobile e fallibile, richiama la definizione che dava di sé Aby Warburg come “sismografo sulla linea di frattura tra le culture… per conoscere in essa la vita nella sua tensione tra i due poli costituiti dall’energia naturale, istintiva e pagana, e dall’intelligenza organizzata”[vi].

Note:
[i] Hannah Arendt, The Human Condition, Chicago 1958, p. 8.
[ii] Ivi, p. 52.
[iii] Cfr. Franco Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Torino 2009.
[iv] Lorenza Pignatti, Mind the Map, Milano 2011, p. 24.
[v] È la proposizione 5.62, Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 1922 (ed. it. A.G. Conte, a cura di, Torino 1995, p. 89)
[vi] Aby Warburg, Reise-Erinnerungen aus dem Gebiet der Pueblos, 1923; in G. Didi-Huberman, L’image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Paris 2002 (ed. it.L’immagine insepolta, Torino 2006, p. 126).



The Human Condition
by Pietro Gaglianò


“Plurality is the condition of human action because we are all the same, that is, human, in such a way that nobody is ever the same as anyone else who ever lived, lives, or will live”.
Hannah Arendt, The Human Condition[i]

In her analysis of the human condition Hannah Arendt makes it clear that the principle reason for the intolerability of contemporary society (identified by her as mass society), lies not just in the sheer number of people which crowd it, so much as “the fact that the world between them has lost its power to gather them together, to relate and to separate them”.[ii] The social space –  composed of verbal communication and shared signs, that extension that is at the same time physical and intangible and in which the specific qualities of a civilisation are defined – has degenerated into forms from which it is difficult to bring out those differences which make communication necessary, and even those communal traits that make it possible in any form. In the Internet age some terms of reference have changed – those of a technical nature and numeric scale – but the “world that lies between them” still does not include the ability to imagine the plurality of individuals consciously active in the creation of the public sphere.

Across centuries and cultures the visualisation of the dimension in which this collective participation is (or should be) created always corresponds to the idea of a surface which hosts a network of passages, whether this is the agora of Greek civilization or the Web[iii]: a map, a graphical synthesis of a concrete or virtual space which may involve a sizeable group of interlocutors and any communication structure. Giovanna Bianco and Pino Valente experiment with a possible interpretation of this representation, understanding the content which conceptually generates the map (its intellectual value) as both a constitutive and graphical element of itself. Moreover, the processes and outcome of the projectConstellations Of Me raise a series of questions about the sense and meaning of these maps, effectively implementing them as “an operational practice which on the one hand excavates, finds and displays, and on the other generates constructive relationships”[iv]. The artists’ explicit reference to the theoretical universe of Gregory Bateson restores the demiurgic and creative dimension which is part of any cartographic procedure: the capacity to describe (functionally) a material or immaterial territory, but also to invent it (exactly in the sense which resides in the etymology of this term, from the Latin ‘invenire’ which is translated as ‘discover’, ‘find’).”

The Constellations of Bianco-Valente signal something which has already occurred (the exchange of contents and contacts between diverse subjects and their times), but, principally, they show the complex plot of the trajectories through which these relationships occur and the latent linkages between the different interlocutors. The formal specificity of the Constellations is not reducible to an indication of reading, but concerns the possibilities opened up by emersion in this network. No map is neutral and no map is ever definitive; in fact, beyond the intrinsic transformation of the surfaces translated by the form of representation, it is crucial to remember exactly the new dimension through which one perceives the surfaces with meanings added, or revealed, by the cartographic system.

Thus the Constellations expresssomething objective but they inevitably bind it to subjective experience, as is declared in the very title of the work; the reference to the author, ‘me’, suggests two paraphrases: the most direct refers to belonging and announces the constellation as mise en scene of the relational network that includes me and of which I am the principal subject; the second instead declares the point of view: the constellation that I see, the one that I alone can trace because I emit it as the point of origin. This takes us back to the formal specificity of the Constellations, which seem to strive for the starkest clarity. The limit of every cartographic instrument lies in the possibility of decodifying it, of sharing its key, that is of access to the information it contains – “That the world is my world, shows itself in the fact that the limits of the language (the language which only I understand) mean the limits of my world” wrote Wittgenstein in Tractatus[v]. Bianco-Valente simplify as much as possible the necessary codes and so highlight the overall aspect: the rhizomatic nature of the bonds between people, which is proposed as a concept (that is, the constellation) even in its own existence.

Mark Lombardi called their graphical representations of relationships between powers (political, financial, and other hidden hegemonies) “narrative structures”, and so centred the meaning of their work on the quality of the information it contained and on the almost functional value of the diagram which expressed it. Bianco-Valente’sConstellations cover this same idea to confer a narrative capacity to the system which is put in place, but overcoming the functional perspective also gives space for nuances of an emotional, intellectual and affectionate tone. The connection of complex structures (people) into an organised network thus becomes the instrument to formulate an aesthetics of information, and it demonstrates (and at the same time strengthens) the existence of other relational models. The project once again finds itself in line with Bateson’s point of view: Constellations Of Me rejects a system of interpersonal relationships dominated by an aseptic hierarchy of ancestries and classification, and admits the oscillations of doubt and the necessarily partial and imperfect representation of a whole, that of relationships, which is unstable and flexible even whilst it is developing.

The abstraction required by the design with which Constellations is presented is inherently unrelated to the time it passes through, and in this limitation it carries the necessity to overcome the design itself. The Constellation is implicitly infinite, even in the project proposed in Bologna, where it refers to a closed number of contacts (closed simply because of the extinction of all of the interlocutors involved), because its perfectibility is congenital to the very material from which knowledge is made. Indeed, the view of the network itself tends towards the clarification of its plastic capacity, but also its unreliability, subject as it is to the will not only of those who made it (and in this way define the terms of its temporary extension), but also those who read it.

In this way Bianco-Valente assist in the radial multiplication of the traces, the shift of meaning that the transfer of information may take on, crossing languages and mediating itself in instruments, multiplying the chance factor represented by the cultural conditioning that composes the complexity of the transmitted data (in particular, the reference is to the project presented in Marrakesh in 2011). Their point of view, mobile and fallible, recalls the definition that Aby Warburg gave of himself as a “soul-seismograph to the meteorological divides of culture. … in order there to experience life in its polar tension between a pagan, instinctual nature cult and organised intelligence”.[vi]

Notes:
[i] Hannah Arendt, The Human Condition, Chicago 1958, p. 8.
[ii] Ivi, p. 52.
[iii] Cfr. Franco Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Torino 2009.
[iv] Lorenza Pignatti, Mind the Map, Milano 2011, p. 24.
[v] Is the proposition 5.62, Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 1922 (it. edited by A.G. Conte, Torino 1995, p. 89)
[vi] Aby Warburg, cited in J. L. Koerner (1997) ‘Paleface and Redskin’. The New Republic March 24, pp. 30-38 [Review of Warburg’s Images from the Region of the Pueblo Indians of North America].





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